di Stefano Fusi
Ci siamo già dimenticati la siccità e gli incendi dell’estate appena passata? E quanto si parlerà della sorgente del Po da cui non esce più acqua (notizia del 5 settembre 2017)?E l’uragano in Texas, e gli altri in giro per il mondo? Per restare negli USA, ci siamo ormai già abituati a un personaggio incredibile come Trump, il quale sostiene che i cambiamenti climatici sono null’altro che un complotto cinese o giù di lì? Forse. Forse siamo assuefatti, ormai. Abbiamo rinunciato perfino a sperare?
L’ecologia, gli ecologisti sembrano ormai muti di fronte a una situazione che pare fuori controllo. È già tardi per “salvare il pianeta”? O meglio noi stessi (visto che semmai è Gaia, il mondo vivente, che potrebbe salvare noi visto che già ci nutre e cura)? Non lo sappiamo.
In buona parte dipende da noi. Ma quello che è certo è il fatto che non è più possibile affrontare le questioni ambientali nei modi tradizionali: con interventi politici, economici, sociali, filosofici, con educazione ambientale ecc. ecc. … non bastano più. La malattia generale da acuta è divenuta grave, cronica, quasi terminale. Qualcosa sembra al di là della portata degli approcci convenzionali. Sembra che non riusciamo a fermare la marcia della devastazione ambientale, gingillandoci con concetti come “sviluppo sostenibile”, divenuti presto appannaggio di furbetti del quartierino politico e di multinazionali del
greenwashing che si rifanno l’immagine.
Finora abbiamo tentato (forse) di frenare, di rallentare. Ma il totale distacco dell’economia finanziarizzata, della tecnica robotizzata e della nostra vita quotidiana dalle radici ambientali sembrano spingerci oltre ogni limite. Bisogna invertire la corsa, non infiocchettarla o tentare di rallentarla, visto che la direzione è sbagliata, stiamo andando verso il precipizio. Decrescere, cambiare direzione a U, tornare con occhi nuovi a guardare e sentire la Terra. Assumere una visione più leggera e poetica del mondo, che non è una macchina o un giacimento da sfruttare. È vivo. È spirito e anima, è meraviglia. Ri-innamorarci del mondo, questo conta, ormai c’è poco da studiare e analizzare e prevedere e sensibilizzare: siamo più consapevoli, tutti, del rapporto con la natura, ma ciò non basta. Serve riprendere a vederla come madre, come padre, come fratello e sorella, come incanto e poesia: tornare alle vere origini della poesia, che etimologicamente significa “fare” ossia percepire e agire verso il mondo sentendosene parte con sentimento oltre che con la ragione. Come i popoli nativi, i mistici, i semplici.
Qualche poeta, come Gary Snyder, è passato da tempo all’ecologia profonda: quella che considera tanto importanti le azioni concrete per l’ambiente quanto l’approccio spirituale: quell’approccio che fa sentire come essenziali le innumerevoli vite, le linfe degli alberi, il battito del cuore, il profumo dei fiori e la freschezza dell’acqua, il sorriso delle comunità, più che i pur meritori ma spesso inani sforzi per convincere la megamacchina a distruggere un po’ meno.
Decrescita felice o de-sviluppo sostenibile, questo è il passaggio obbligato oggi, perché crescita e sviluppo sono ormai parole vuote, impossibili, ipocrite e dannose. Pure illusioni. La realtà è che non ci salveremo se non usciamo dall’ipnosi di massa che ha trasformato anche l’ecologia in uno slogan pubblicitario, se non riusciamo neppure più a vedere e sentire le cose più importanti e semplici e al contempo meravigliose – respiriamo e siamo vivi, abbiamo bisogno di acqua e aria e suolo, non dobbiamo uccidere inutilmente né sporcare la grande casa in cui viviamo, senza gli altri non esistiamo.
Snyder è un poeta-filosofo-ecologista-antropologo-studioso e praticante dello Zen, giramondo ma radicato in una bioregione specifica (la Sierra Nevada dell’Ovest degli Usa). Premio Pulitzer per la poesia nel 1974 per il suo “Turtle Island” (L’Isola della tartaruga”, il nome che i Nativi americani danno all’America), è un autore celebre negli Usa fin dai tempi dei poeti beat, che sgorga dalla sorgente dell’ecologismo
ante litteram e dal grande filone dei libertari e naturalisti americani come Henry David Thoreau e John Muir; ora è ottantenne e continua a testimoniare la sua appartenenza alla comunità vivente.
È il caso di ascoltare le sue parole, fra le più ispirate, profetiche e lungimiranti che siano state scritte in questi decenni. I suoi libri non sono ponderosi e pesanti trattati, ma appassionanti diari e taccuini “da viaggio spirituale” che raccontano come si vive e come si potrebbe vivere in armonia con la Terra, come si può reimparare a sentire la voce delle foglie, che cosa abbiamo da apprendere dagli animali, cosa ci aspetta se torniamo – con occhi nuovi e moderni – a riabitare il sacro mondo in cui abbiamo avuto il dono di nascere. La Terra vivente, Gaia, andrà avanti anche senza di noi, magari meglio di ora, ritroverà i suoi equilibri: siamo noi umani, discoli ignoranti e scapestrati, ad avere esagerato, ad avere bisogno di curvarci di nuovo, umilmente, verso il suolo e ringraziare i vermi che lo dissodano per noi e gli uccelli che, se non gli spariamo, mangiano gli insetti che ci pungerebbero; e abbiamo bisogno di sollevarci verso il cielo, a guardarlo e a stupirci, celebrando la gioia di esistere insieme alle piante, alle pietre e alle stelle e alla pioggia, quando finalmente arriva anche se pervicacemente allora diciamo che c’è “brutto tempo”.
Che facciamo? Non ci fermiamo certo, siamo vivi e ci diamo da fare. Cambiamo approccio. Studiamo insieme come farlo, in fretta anche se con calma e senza illusioni , perché è l’unico modo di procedere: prima di tutto ispirandoci alle fonti, ai vecchi saggi che sono il passato e quindi vedono il futuro. Ascoltiamo la poesia e meditiamola, e agiamo di conseguenza.
L’ecologia profonda: “Ricchezza di fini, semplicità di mezzi”.
Il termine “Ecologia profonda” (Deep Ecology) fu usato per primo dal filosofo, naturalista e ambientalista norvegese Arne Naess nel 1973, per distinguerla da quella che chiamò “ecologia superficiale” (Shallow Ecology). Oggi l’ecologia profonda è un filone di studi ma anche una pratica di vita che mette al centro di ogni considerazione la vita naturale e la sua importanza fondamentale per la vita sociale, la salute e la realizzazione spirituale. Secondo l’ecologia profonda, non bastano soluzioni tecniche o politiche ai problemi ambientali: bisogna cambiare vita, riconoscere la sacralità di ogni cosa. Naess spiegò che non si può vivere bene se non si riesce a mettere al centro di ogni considerazione personale la vita naturale e la sua importanza fondamentale per la salute e per la propria realizzazione spirituale. L’obiettivo dell’ecologia profonda per Arne Naess è la “realizzazione del Sé” per tutti gli esseri viventi.
Stefano Fusi
Milano 11-09-2017
*in margine a La pratica del selvatico di Gary Snyder, Fiorigialli edizioni.