Idee e Pratiche per una Vita Consapevole

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I SENTIERI DELL' ESSERE
Le mille Vie della Spiritualità
I SENTIERI DELL' ESSERE
LA PRATICA DA SEGUIRE
Un monaco chiese a Dong-Shan:
C'è una pratica che le persone debbano seguire?
Dong Shan rispose:
quando diventi una vera persona c'è una tale pratica.
Sai essere freccia, arco, bersaglio?
<b>Sai essere freccia, arco, bersaglio?

Sai essere freccia, arco, bersaglio?
Conosci la sequenza delle costellazioni?
La fusione dell'idrogeno in elio?
Sai misurare la tua integrità?
Se rispondi
Avrai l'immortalità.

Laura Scottini

MEDITAZIONE TAOISTA
<b>MEDITAZIONE TAOISTA </b>





 

Chiudi gli occhi e vedrai con chiarezza.
Smetti di ascoltare e sentirai la verità.
Resta in silenzio e il tuo cuore potrà cantare.
Non cercare il contatto e troverai l'unione.
Sii quieto e ti muoverai sull'onda dello spirito.
Sii delicato e non avrai bisogno di forza.
Sii paziente e compirai ogni cosa.
Sii umile e manterrai la tua integrità.

 

IL VUOTO CHE DANZA
IL VUOTO CHE DANZA










di H.W.L. Poonja


Rimani ciò che sei ovunque tu sei.
Se fai così, saprai immediatamente
di essere Quello che hai cercato
per milioni di anni.

Non c'è ricerca,
perchè si cerca solo qualcosa che si è perso.
ma quando niente è andato perduto
non ha senso
cercare qualcosa.

Qui semplicemente Stai Quieto.
Non formare nemmeno un pensiero nella mente.
Allara saprai
Chi sei realmente.

per tre motici la ricerca e la pratica
sono follie fuorvianti
sono l'inganno della mente
per posporre la libertà.
Continua...

PAROLE SU DIO
PAROLE SU DIO

di Simone Weil

Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio, ma dal modo in cui parla delle cose terrestri, che si può meglio discernere se la sua anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio. … Così pure, la prova che un bambino sa fare una divisione non sta nel ripetere la regola; sta nel fatto che fa le divisioni.

Il bello è ciò che si desidera senza volerlo mangiare. Desideriamo che sia. Restare immobili e unirsi a quel che si desidera senza avvicinarsi. Ci si unisce a Dio così: non potendosene avvicinare. La distanza è l’anima del bello.

Nella prima leggenda del Graal è detto che il Graal, pietra miracolosa che in virtù dell’ostia consacrata sazia ogni fame, apparterrà a chi per primo dirà al custode della pietra, il re quasi paralizzato dalla più dolorosa ferita: “Qual è il tuo tormento?”. La pienezza dell’amore del prossimo sta semplicemente nell’essere capace di domandargli: “Qual è il tuo tormento?”, nel sapere che lo sventurato esiste, non come uno fra i tanti, non come esemplare della categoria sociale ben definita degli “sventurati”, ma in quanto uomo, in tutto simile a noi, che un giorno fu colpito e segnato dalla sventura con un marchio inconfondibile. Per questo è sufficiente, ma anche indispensabile, saper posare su di lui un certo sguardo. Continua...
I BAMBINI
DAGLI OCCHI DI SOLE

I BAMBINI<br> DAGLI OCCHI DI SOLE










Vidi i pionieri ardenti dell’Onnipotente
superando la soglia celeste che è volta alla vita
discendere in frotta i gradini d’ambra della nascita;
precursori d’una moltitudine divina,
essi lasciavano le rotte della stella del mattino
per l’esigua stanza della vita mortale.

Li vidi traversare il crepuscolo di un’era,
i figli dagli occhi di sole di un’alba meravigliosa,
i grandi creatori dall’ampia fronte di calma,
i distruttori possenti delle barriere del mondo
che lottano contro il destino nelle arene della Sua volontà,
operai nelle miniere degli dei,
messaggeri dell’Incomunicabile,
architetti dell’Immortalità.

Nella sfera umana caduta essi entravano,
i volti ancora soffusi della gloria dell’Immortale,
le voci ancora in comunione coi pensieri di Dio,
i corpi magnificati dalla luce dello spirito,
portando la parola magica, il fuoco mistico,
portando la coppa dionisiaca della gioia,
Continua...
IL SEGRETO DELLE STELLE CADENTI
IL SEGRETO DELLE STELLE CADENTI

di Maurizio Di Gregorio

Tutti cerchiamo qualcosa. Se lo cerchiamo nel mondo materiale pensiamo di trovarlo all’esterno di noi stessi. Se lo cerchiamo nel mondo spirituale siamo portati a credere di poterlo trovare all’interno di noi. Una massima dice: la risposta è dentro di te. Una battuta invece dice: la risposta è dentro di te, ma è sbagliata. Ambedue le affermazioni sono vere perché si riferiscono a due esseri diversi. Uno vero e l’altro falso. Come si fa a sapere quale é l’Io interiore che contiene tutte le risposte della vita? Dalla felicità. Nel primo caso si sa solo che si è felici, sia pure per un attimo, si è completamente, immensamente e interamente felici e più correttamente si dovrebbe chiamarla beatitudine. Nel secondo caso sappiamo solo, che a dispetto di ogni altra cosa, momentanea soddisfazione o eccitazione, non si è veramente felici. 
Aivanhov, definendo la natura umana, parla della coesistenza di una natura inferiore e di una natura superiore. All’interno di ognuno è una continua lotta tra due esseri (o stati di essere) in competizione che Aivanhov chiama Personalità e Individualità. “Persona “ è la maschera e in ogni incarnazione la maschera è diversa, “Individualità” è l’abitante della maschera, colui che non cambia, il vero Sé divino. La personalità è in parte ancora inesistente nel bambino ma già tracciata, si sviluppa con l’età come la trama di un tessuto e si consuma nella vecchiaia. Il risveglio dell’anima consiste nel riconoscimento del Sé interiore e nell’abbandono momentaneo della maschera della personalità. Ora anche se possiamo capire qualcosa del nostro essere maschera, né la mente, né il cuore né la volontà sono risolutivi.
E questo perché mente cuore e volontà sono una triade che esiste tanto nella natura delle Individualità quanto nella natura della Personalità.
“Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” Quale è, in ogni dato momento, il cuore che chiede, la mente che cerca, la volontà che agisce? La strada dell’evoluzione spirituale, cioè della evoluzione dell’essere allo Spirito, è insidiosa perché ad ogni sviluppo della Individualità segue uno sviluppo della Personalità. Differentemente il discernimento è possibile solo dal punto di vista della Coscienza Superiore che è esattamente ciò che si illumina.
Fuori da questa esperienza si persiste sempre in un tipo di coscienza media, anche se ampliata o sofisticata, una coscienza media perché media in un equilibrio precario le necessità delle due nature....Continua...
I SETTE ASPETTI DELLA NUOVA COSCIENZA
I SETTE ASPETTI DELLA NUOVA COSCIENZA

di Ervin Laszlo

Il grande compito, la grande sfida del nostro tempo è cambiare se stessi.
Questo elenco delle principali caratteristiche della nuova visione, della nuova coscienza, è scritto per stimolare la trasformazione, perché è possibile acquisire una nuova consapevolezza, perché tutti possono evolvere, tante persone l'hanno già fatto ed è diventata una conditio sine qua non della nostra sopravvivenza sulla Terra.
La prima caratteristica è l'olismo, la visione olistica, per contrastare la visione frammentaria, disciplinaria, atomistica, che separa tutto: la mente dalla natura, l'uomo e la società dalla biosfera, e tutti i campi della realtà l'uno dall'altro. La visione olistica è proprio quella comprensione Continua...
I FIGLI DELLA LUCE
I FIGLI DELLA LUCE




 


I Figli della Luce si nutrono di Pace, Libertà, Amore, Giustizia, Grazia, Benevolenza, Comprensione, Compassione, Generosità, Bontà, Luce, Verità, Positività, trasmettendo tutto questo intorno a loro. Le creature che vengono in contatto con i Figli della Luce percepiscono la Positività dell’operato della “Luce Amore” e uno stato di benessere entra in loro. Non sono consapevoli della fonte di questa Positività, ma stanno volentieri in compagnia dei Figli Luce dispensatori d’Amore.
Continua...
UNA SPIRITUALITA' ECOLOGICA
UNA SPIRITUALITA' ECOLOGICA

di Matthew Fox

L’ecologia e la spiritualità sono le due facce della stessa medaglia. La religione deve lasciar andare i dogmi in modo da poter riscoprire la saggezza del mondo.
Come dovrebbe essere una religione ecologica? Negli ultimi 300 anni l’umanità è stata coinvolta in una grande desacralizzazione del pianeta, dell’universo e della propria anima, e questo ha dato origine all’oltraggio ecologico. Saremo capaci di recuperare il senso del sacro?La religione del futuro non sarà una religione in senso stretto del termine, dovrà imparare a lasciare andare la religione. Il Maestro Eckhart, nel quattordicesimo secolo disse, “Prego Dio di liberarmi da Dio”. Per riscoprire la spiritualità, che è il cuore autentico di ogni religione vera e fiorente, dobbiamo liberarci dalla religione. Sembra un paradosso. La spiritualità significa usare il cuore, vivere nel mondo, dialogare con il nostro sé interiore e non semplicemente vivere a un livello organizzativo esterno.
E. F. Schumacher, nel suo profetico modo di scrivere, disse, nell’epilogo di Piccolo è bello, “Dappertutto la gente chiede, ‘Cosa posso fare praticamente?’ La risposta è tanto semplice quanto sconcertante, possiamo, ciascuno di noi, mettere in ordine la nostra casa intima, interiore. Per far questo non troviamo una guida nella scienza o nella tecnologia, poiché i valori sui quali esse si poggiano dipendono sommamente dal fine per il quale sono destinate. Tale guida la si può invece ancora trovare nella tradizionale saggezza dell’umanità”.
Tommaso d’Aquino, nel tredicesimo secolo disse, “Le rivelazioni si trovano in due volumi – la Bibbia e la natura”. Ma la teologia, a partire dal sedicesimo secolo, ha messo troppa enfasi nelle parole della Bibbia, o del Vaticano o dei professori, ha messo tutte le uova nel paniere delle parole, parole umane, e ha dimenticato la seconda fonte della rivelazione, la natura!
Il Maestro Eckhart disse, “Ogni creatura è la parola di Dio e un libro su Dio”. In altre parole, ogni creatura è una Bibbia. Ma come ci avviciniamo alla saggezza biblica, alla saggezza sacra delle creature? Col silenzio. C’è bisogno di un cuore silente per ascoltare la saggezza del vento, degli alberi, dell’acqua e della terra. Nella nostra ossessiva cultura verbale, abbiamo perso il senso del silenzio. Schumacher disse, “Siamo ormai troppo intelligenti per sopravvivere senza saggezza”. Continua... 
SULL'ANARCHIA BUDDISTA
SULL'ANARCHIA BUDDISTA di Gary Snyder

Da un punto di vista buddista, l'ignoranza che si proietta nella paura e nel vano appetito impediscono la manifestazione naturale. Storicamente, i filosofi buddisti non hanno saputo analizzare fino a che punto l'ignoranza e la sofferenza erano dovuti o favoriti da fattori sociali, considerando il timore e il desiderio come fatti intrinseci alla condizione umana. Così, la filosofia buddista si interessò principalmente alla teoria della conoscenza e la psicologia fu svantaggiata, per dare più spazio allo studio dei problemi storici e sociologici. Anche il buddismo Mahayana possiede un'ampia visione della salvezza universale, la sua realizzazione effettiva si è concretizzata nello sviluppo di sistemi pratici di meditazione per liberare a una minoranza di individui da blocchi psicologici e condizionamenti culturali. Il buddismo istituzionale è stato chiaramente disposto ad accettare o a ignorare le disuguaglianze e le tirannie sotto il sistema politico che vigeva. È stata come la morte del buddismo, posto che è comunque la morte che riesce a far comprendere il significato della compassione. La saggezza senza compassione non sente dolore.
Continua...
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CHE COSA E' IL BUDDHISMO


Riccardo Venturini

1. Esplicita o implicita, una domanda è certamente presente alla mente di molti: "Cosa è il Buddhismo?" Un primo modo di rispondere a questa domanda potrebbe essere: il buddhismo (analogamente a quanto può dirsi di molte dottrine religiose o filosofiche, cristianesimo compreso), è rappresentato
1) dalle interpretazioni che, nel corso della storia, ha avuto l’insegnamento di Buddha Shakyamuni;
2) dalle forme di vita religiosa che a queste si riferiscono. Perché in effetti — considerando una storia di ben 2500 anni — dobbiamo riconoscere di essere in presenza di una incredibile molteplicità di insegnamenti, di espressioni devozionali, di elaborazioni filosofiche, di fenomeni di inculturazione in paesi e tempi diversi, che caratterizzano questa tradizione sapienziale, costituendone l’indiscutibile fascino e la profonda ricchezza e, a un tempo, anche il motivo della complessità e dell’arduità del suo studio.
Proprio quest’ampia capacità di diffusione ha fatto del buddhismo una delle grandi religioni viventi dell’umanità, presente oggi anche nel mondo occidentale e nel nostro Paese, al centro di un interesse che sarebbe superficiale considerare a livello di una moda, sostenuta dall’attrazione per un messaggio esotico, capace di soddisfare solo un desiderio di evasività o un indistinto bisogno di un Dio alternativo. Se questo poteva avere qualche aspetto di verità nei decenni trascorsi, oggi sembra potersi affermare che il bisogno di conoscenza della tradizione buddhista abbia una ben diversa giustificazione e si situi a un ben altro livello.

Siamo infatti di fronte:
1) all’esigenza di una più profonda riflessione sui confini e sui connotati della spiritualità,
2) ai problemi e alle speranze del dialogo interreligioso e, infine, 3) alla ricerca, nei più diversi sistemi di pensiero dell’umanità, di elementi utili per una nuova sintesi culturale che il millennio appena iniziato ha il dovere di tentare. Nel tramonto degli orizzonti di senso eurocentrici e nella crisi delle ideologie, tra i fragili valori della cultura postmoderna e le minacce dei vecchi totalitaritarismi non completamente sconfitti e quelle dei nuovi virulenti integralismi, il buddhismo, con i suoi strumenti di interpretazione della realtà e della storia, e con l’indicazione di una saggezza da incarnare nel quotidiano e di una compassione da praticare verso tutti gli esseri senzienti, sembra infatti in grado di rispondere ad attese autentiche, ben al di là delle pur presenti ingenue manifestazioni di un superficiale turismo spirituale.

Il buddhismo, com’è noto, sorge in India nel VI sec. a. C., in quel fervido periodo a cui Karl Jaspers ha dato il nome di “periodo assiale” della storia mondiale, situato intorno al 500 a. C.
In questo periodo — scive Jaspers — si concentrano i fatti più starordinari. In Cina vissero Confucio e Lao-tse, sorsero tutte le tendenze della filosofia cinese, meditarono Mo-ti, Chuang-tse, Lieh-tsu e innumerevoli altri. In India apparvero le Upanishad, visse Buddha e, come in Cina, si esplorarono tutte le possibiltà filosofiche fino allo scetticismo e al materialismo, alla sofistica e al nihilismo. In Iran Zarathustra propagò l’eccitante visione del mondo come lotta fra bene e male. In Palestina fecero la loro apparizione i profete, da Elia a Isaia e Geremia, fino a Deutero-Isaia. La Grecia vide Omero, i filosofi Parmenide, Eraclito e Platone, i poeti tragici, Tucidite e Archimede.
Tutto ciò che tali nomi implicano prese forma in pochi secoli quasi contemporaneamente in Cina, in India e nell’Occidente, senza che alcuna di queste regioni sapesse delle altre.
La novità di quest’epoca è che in tutti e tre i mondi l’uomo prende coscienza dell’Essere nella sua interezza [Umgreifende, ulteriorità onnicomprensiva], di sé stesso e dei suoi limiti. Viene a conoscere la terribilità del mondo e la propria impotenza. Pone domande radicali.
In altri termini, nel periodo assiale, sembra che l’umanità abbia fatto un incredibile salto nell’approfondimento della conoscenza di sé e si sia operata una trasformazione globale dell’essere-umano a cui, sempre secondo Jaspers, " si può dare il nome di spiritualizzazione". Vennero infatti formulate le categorie fondamentali secondo cui pensiamo ancor oggi e poste le basi delle religioni universali, di cui vivono tuttora gli uomini. In ogni senso fu compito il passo nell’universale.

Gli insegnamenti dei maestri di questo periodo, proprio per avere in comune il fatto di essersi poste come riflessione critica e ricerca di saggezza, e di aver costruito scuole di tolleranza nella negazione di dogmatismi, ritualismi ed esteriorità, costituiscono ancor oggi imprescindibili riferimenti spirituali.
Dall’India, il buddhismo ha presto conquistato una immensa area di diffusione (possiamo ormai dire in tutto il mondo), ovunque portando il suo messaggio di tolleranza, di rispetto della vita e della natura, di gentilezza e di eleganza, che ne hanno fatto per eccellenza la religione dell’attenzione e del dialogo: non si ricordano, infatti, né guerre né sacrifici di esseri viventi condotti nel nome di Buddha né persecuzioni o conversioni forzate. La diffusione del buddhismo si è sempre basata non sulla presenza di uno spirito missionario invadente e organizzato,
ma sulla segreta attrattiva dei suoi ideali di silenzio e di pace interiore, di capacità di gestione della sofferenza, di pazienza e di tolleranza nei rapporti tra le persone e tra i popoli.
Non legato a particolari etnie o culture il Dharma di Buddha trascende il tempo e lo spazio, e sembra oggi capace di rispondere a molte esigenze dell’Occidente contemporaneo, facendo cadere quel pregiudizio che lo voleva estraneo e impraticabile alla mente occidentale. Vorrei ricordare quel che anni fa Erich Fromm scriveva su una possibile religione del futuro:

Per coloro che vedono nelle religioni monoteistiche soltanto uno degli stadi dell’evoluzione del genere umano, non è troppo difficile convincersi che una nuova religione si svilupperà entro pochi secoli, una religione che corrisponda allo sviluppo del genere umano; il più importante carattere di questa religione sarebbe quello universalistico che corrisponderebbe all’unificazione dell’umanità che sta oggi verificandosi; esso racchiuderebbe gli insegnamenti umanistici comuni a tutte le grandi religioni dell’Oriente e dell’Occidente; le sue dottrine non contraddirebbero le conoscenze razionali dell’umanità odierna e l’accento sarebbe posto sulla pratica di vita piuttosto che su credenze dottrinarie.
Una simile religione creerebbe nuovi rituali e nuove forme artistiche di espressione tali da produrre uno spirito di riverenza per la vita e la solidarietà dell’uomo. Naturalmente la religione non può essere inventata, essa si affermerà con la comparsa di un nuovo grande maestro proprio come ne sono apparsi nei secoli precedenti quando i tempi erano maturi. Nel frattempo quelli che credono in Dio dovrebbero esprimere la loro fede vivendola; quelli che non credono vivendo i precetti di amore e di giustizia, e rimanendo in attesa.

Queste parole (e potrebbero citarsene altre di Einstein o di Toynbee) sembrano appunto perfettamente attagliarsi alla dottrina buddhista, almeno per tre punti, sui quali possono essere utili alcune riflessioni.
Il primo è rappresentato dall’assenza di un sistema dogmatico, difficilmente armonizzabile con la cultura occidentale, assenza che può invece consentire ai cosiddetti laici di ritrovare la possibilità di una vita religiosa.
Il secondo è l’importanza della pratica: una adesione al buddhismo, non può essere un’adesione soltanto teorica, paragonabile all’iscrizione a un club o, tantomeno, rappresentare l’equivalente del prendere la tessera di un partito. Un — come si dice — “prendere rifugio” nel triplice gioiello della Legge (che governa la totalità del mondo), nel Buddha (che questo Dharma ha interpretato, esposto e realizzato con la sua vita) e nella comunità (di coloro che seguono la dottrina del Buddha), un

prendere rifugio che non fosse accompagnato dalla retta pratica sarebbe un fatto soltanto illusorio. Il buddhismo, come dottrina di vita, non può

ammettere divario tra teoria e prassi, per cui si
configura come un modo di vivere, una via di trasformazione interiore in cui l’importanza non è nell’ortodossia, ma nell’ortoprassi.
Infine, il buddhismo sembra poter offrire un fondamento, che può essere largamente condiviso, alle condotte di solidarietà autorealizzativa, da vivere

nella pratica della non-violenza, della benevolenza e della compassione, della gentilezza e del rispetto reciproci.


2. Tra i pregiudizi che più hanno ostacolato una corretta interpretazione del buddhismo da parte dell’Occidente, ve ne sono due sui quali vorrei

soffermarmi: il primo è quello che vede il buddhismo come dottrina pessimistica, in quanto in esso viene sottolineata la dimensione di sofferenza

propria della vita umana e animale; il secondo è l’interpretazione del buddhismo come dottrina nihilistica per l’identificazione, da esso operata, della

Realtà ultima con ciò che è stato chiamato Vacuità o Shunyata.
Come la tradizione ci tramanda, il giovane principe Siddharta, dopo un’infanzia e un’adolescenza vissute negli agi della regale residenza paterna,

“scoprì” il mondo della malattia, della vecchiaia, della morte; ne fu profondamente turbato e iniziò quel processo di trasformazione personale, che lo

portò alla formulazione del suo messaggio di liberazione. La prima delle cosiddette "quattro nobili verità" di cui si sostanzia il suo insegnamento è,

infatti, la verità della sofferenza:

La nascita è dolore, la vecchiezza è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore, l’unione con ciò che è discaro è dolore, la separazione da ciò che

è caro è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore. In breve, i cinque aggregati che rappresentano la base dell’attaccamento all’esistenza

sono dolore .

Il Buddha, nel suo insegnamento, non come filosofo si rivolge all’umanità, ma come medico, dispensatore di un prezioso farmaco (il Dharma),

capace di indicare all’uomo una via di uscita dalla sofferenza.
Egli fonda un ordine che non è una chiesa, quanto, potremmo dire, un luogo di cura, una sorta di “sanatorio” per uomini e donne che aspirano alla

liberazione spirituale. Vorrei, a questo proposito, ricordare che una delle forme in cui il Buddha è venerato in Estremo Oriente è proprio quella di

Maestro della medicina e famosa è la statua dello Yakushi
Nyorai (Buddha della medicina) del tempio Yakushiji a Nara, in Giappone.
Il Buddha, infatti, richiama l’attenzione sulla centralità della sofferenza non per fondare una filosofia pessimistica, ma per offrire un insegnamento che

sia un messaggio di liberazione e di speranza per gli uomini, ai quali viene proposto un cammino di autoredenzione.
Se il punto di partenza del percorso spirituale del giovane principe Siddharta fu rappresentato dalla presa di coscienza della sofferenza, il punto di

partenza del suo insegnamento come Buddha fu costituito dal richiamo all’esperienza diretta, non irretita da problemi metafisici che non possono

avere soluzione. Consapevole del carattere interminabile del conflitto delle speculazioni, il Buddha lo supera portandosi, potremmo dire in termini

kantiani, dal livello della metafisica a quello della critica, presentandosi pertanto il buddhismo non come una critica del reale, ma come una critica

delle visioni del reale (del dogmatismo realista e di quello idealista, di quello eternalista e di quello nihilista, etc.). Gli “inesprimibili”, elencati in molte

scritture buddhiste, sono le domande che chiedono

se il mondo è eterno o non-eterno o entrambi o nessuno dei due; se il mondo è finito o infinito o entrambi o nessuno dei due; se il Tathagata esiste

dopo la morte o non esiste o entrambi o nessuno dei due; se l’anima è identica al corpo o diversa da esso .

Su di essi il buddhismo rimane in silenzio, avendo sempre presente la sua vocazione terapeutica e indicando una pratica che ha tutto il carattere di

urgenza di un intervento medico che non consente indugi. La parabola della freccia avvelenata esprime bene questo atteggiamento:

Se un uomo fosse colpito da una freccia avvelenata, abbondantemente cosparsa di veleno, e i suoi amici e compagni, parenti e congiunti

chiamassero un medico chirurgo ed egli, tuttavia, dicesse: "Non voglio farmi estrarre questa freccia fino a quando non saprò chi mi ha colpito; se un

guerriero o un brahmana, se un mercante o un servo"; e dicesse
"Non voglio farmi estrarre questa freccia fino a quando non saprò chi mi ha colpito, qual è il suo nome, qual è la sua gente"; e dicesse: "Non voglio

farmi estrarre questa freccia, fino a quando non saprò quale uomo mi ha colpito, se alto, basso o di media statura" […] Certamente quest’uomo

uomo non riuscirebbe a sapere tutto ciò, prima di aver già finito il suo tempo.

Il silenzio del Buddha sulla Realtà ultima non è dunque un silenzio agnostico o strumentale, ma — per usare un termine della tradizione cristiana — un

silenzio “apofatico”, aspetto essenziale non solo dell’insegnamento, ma della stessa dottrina. L’inesprimibilità della Verità ultima non ha, cioè, origine

da un’insufficienza conoscitiva umana, ma è un carattere costitutivo della verità. Solo una via apofatica, una via “negativa”, può essere quindi proposta

riguardo a
essa, una via che si ponga al di là di tutti i dualismi propri dell’intelletto discorsivo e discriminante.
L’insegnamento supremo di tutti i Buddha è giocato continuamente nella dialettica tra verità convenzionale (e mezzi didattici “provvisori”), da un lato, e

Verità ultima, inesprimibile, dall’altro. Leggiamo nel Sutra del loto:

Questo Dharma è inesprimibile, è al di là del regno dei termini, […] non è cosa che possa essere compresa mediante il ragionamento discorsivo e la

discriminazione; solo i Buddha possono conoscerlo.

La Realtà ultima, essendo nel buddhismo definita come Vacuità, risulta non oggettivabile, non concepibile, non raggiungibile dalla coscienza

ordinaria. Non si ripeterà mai abbastanza che con Vacuità non si indica il nulla, ma la mancanza di esistenza intrinseca dei fenomeni, ossia l’aspetto

relazionale e interdipendente della realtà fenomenica.
Infatti, tutto ciò che consideriamo esistente vediamo che esiste in virtù di altro, di cause e condizioni, per cui nulla è autosufficente ed esistente di per

sé, ma tutto è interconnesso. Passando a un piano esperenziale, se esaminiamo con attenzione la nostra vita non possiamo non constatarne i

caratteri di transitorietà e interdipendenza:
nasciamo, veniamo allevati ed educati da altri, tutta la nostra esistenza è in un incessante cambiamento e in un continuo scambio di sostanze,

energia, informazioni con l’ambiente, per cui non possiamo concepire salvezza o liberazione che possa essere isolata dalla presenza, dall’azione e

quindi dalla salvezza degli altri. La prima
fondamentale illusione da cui liberarsi sarà dunque proprio quella di possedere un io permanente, separato, autosufficente.
Lungi dunque dal sostenere posizioni nihilistiche, le varie forme di insegnamento buddhista, che hanno dato origine alle differenti scuole e tradizioni,

si configurano come upaya (mezzi abili, mezzi didattici), mezzi utili, ma provvisori, approntati abilmente dal Buddha per la liberazione degli esseri non

-illuminati. Una volta riconosciuta questa
qualità di mezzi, essi continuano ovviamente a essere usati, ma con l’attenzione desta a non generare nuove forme di attaccamento e nuove illusioni.

Lo stesso buddhismo, in quanto sistema dottrinale, può essere considerato upaya, da cui segue l’esortazione, diretta ai praticanti, a non attaccarsi

neppure alle pratiche religiose e agli insegnamenti, cosa
che conferisce al buddhismo un’identità sui generis e una forza critica eccezionale nell’ambito della vita spirituale e nel confronto con le altre

tradizioni. Tra le due sponde, quella delle illusioni e della sofferenza e quella del nirvana e della pace, la religione si offre come un indispensabile

traghetto, ma una volta attraversato il fiume non avrebbe molto senso continuare a portare la zattera sulle spalle.


3. Questo particolare carattere del buddhismo ha fatto da sempre porre l’interrogativo se esso debba essere considerato una filosofia o una

religione o una filosofia religiosa o una religione atea e via discorrendo.
È stato detto, dal filosofo Whitehead, che il cristianesimo è una religione che ha cercato una metafisica attraverso la quale interpretarsi, mentre il

buddhismo è una dottrina di vita che ha cercato di farsi religione per potersi esprimere. Dobbiamo riconoscere che il buddhismo ha usato

felicemente il veicolo religioso, perché, anche se in esso possiamo trovare molti punti in comune, ad esempio, con dottrine etiche dell’antichità

classica, queste sono oggi soltanto capitoli di storia della filosofia, mentre il buddhismo continua a essere una grande, vivente realtà spirituale, in cui

si riconoscono milioni di uomini. In verità, per rispondere a questa domanda occorre interrogarci su quello che, parafrasando Rolan Barthes, si

potrebbe chiamare il “grado zero della religione”. Al suo grado zero, il sentimento religioso sembra caratterizzarsi come domanda sul senso ultimo

della vita, accompagnata da un sentimento di insoddisfazione nei confronti della realtà del mondo, ovvero dalla convinzione che quella del mondo

ordinario non sia l’unica realtà o, ancora, che il modo ordinario di guardare il mondo non sia l’unico modo. Attraverso un diverso
atteggiamento e un diverso modo di guardare è infatti possibile intravvedere una realtà altra, stabilire con essa una qualche forma di comunicazione

e, possibilmente, di comunione.
Come si esprime con grande semplicità un sociologo della religione, J. A. Beckford, sarà sufficiente definire la religione un interesse per un

sentimento di universalità o per il significato ultimo delle cose, significato che viene trovato quando si chiama in campo l’infinito e si comunica con

una realtà assoluta, dotata di caratteri diversi dai caratteri della realtà fenomenica e finita.
Senza voler troppo insistere su questo punto, potrei ricordare due aneddoti che possono aiutare a comprendere la particolare modalità del

buddhismo di essere religione.
Il primo si riferisce alla conversazione di Bodhidharma, primo patriarca dello zen, con l’imperatore cinese:

L’imperatore Wu di Liang chiese a Bodhidharma: "Dall’inizio del mio regno ho fatto costruire molti templi, ho fatto trascrivere tanti libri sacri, ho aiutato

numerosi monaci; quale pensi che sia il mio merito?"
"Proprio nessun merito, Maestà!", rispose seccamente Bodhidharma.
"Perché?", chiese, stupito, l’imperatore.
"Tutte queste opere sono d’un ordine inferiore", rispose in modo significativo Bodhidharma, "le quali possono far sì che il loro autore rinasca nei cieli

o sulla terra. Esse però recano ancora le tracce del mondo, sono come le ombre che accompagnano gli oggetti. Malgrado le apparenze esse non

sono altro che delle irrealtà. Il vero atto che procura merito è pieno di sapienza pura, è perfetto e misterioso, la sua vera natura è fuori dalla portata

dell’umano intelletto. Essendo tale, nessuna opera di questo mondo può condurre ad esso"
Allora l’imperatore Wu chiese a Bodhidharma: "Qual è il primo principio della santa dottrina?"
"È il vasto vuoto, Maestà, e nulla vi è in esso che sia da chiamarsi santo!", rispose Bodhidharma.
"E allora chi è colui che ora mi sta dinanzi?".
"Non lo so, Maestà!" .

Il secondo aneddoto narra di un missionario cristiano che, vedendo un monaco cinese in preghiera, gli chiese:

– Chi stai pregando? – Nessuno, rispose il monaco.
– Per che cosa stai pregando?, precisò allora il missionario – Per nulla, rispose ancora il monaco.
E mentre il missionario se ne stava andando con visibile disappunto, il monaco aggiunse: – Comunque, guarda che non c’è nessuno che sta

pregando.

In questo insegnamento, fondato sulla diretta esperienza personale, al di fuori di dogmatismi e di interpretazioni uf?ciali, il criterio di verifica che il

Buddha indica a ciascuno, lo troviamo in quella sorta di manifesto del “libero esame” e dell’antidogmatismo presente nel Kalama Sutta:

Non andate dietro a quello che udite ripetere
né alla tradizione
né alle dicerie
né alle congetture
né ai dogmi
né ai ragionamenti artificiosi
né alla propensione per quanto è già familiare
né all’abilità apparente di un altro,
né a considerazioni del tipo: "il monaco è il nostro maestro".
Kalamas, quando voi stessi riconoscete: "Queste cose sono buone, non riprovevoli, in qualche maniera lodevoli, una volta intraprese e provate

portano a benefici e alla pace", [allora] accettatele e dimorate in esse.

A commento di questo sutra vorrei ricordare il versetto del Vangelo di Giovanni che dice: "Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" (Gv., 8, 32).

Rovesciando queste parole, potremmo dire: "Quel che vi fa liberi è la verità".


4. Potrebbe sembrare in qualche modo in contraddizione con quanto detto fin qui, l’enorme sviluppo di sofisticate filosofie che si è avuto col

passsare dei secoli, in particolare con l’affermarsi di quella corrente tradizionalmente definita come Mahayana, cioè la grande via di universale

liberazione, non più legata all’ascetismo monastico, ma aperta a tutti gli esseri senzienti, dotati tutti di quella luminosa e immacolata natura detta

“natura di Buddha”. Nel buddhismo mahayana troviamo una forte accentuazione del carattere di Via di mezzo dell’insegnamento buddhista, in una

visione dialettica sia della pratica religiosa che della dottrina. Soffermiamoci su questo concetto di Via di mezzo.
Nei sutra leggiamo che il giovane Siddharta nonostante si fosse sottoposto a pratiche ascetiche di estrema rigorosità, non riusciva a raggiungere la

meta prefissa. Dopo sei anni di vita nella foresta, rigettò ogni pratica ascetica. Si bagnò nel fiume ed accettò una ciotola di latte da Sujata, una serva

che viveva nel vicino villaggio.

È questa l’indicazione della Via di mezzo nella condotta, un insegnamento che vuole mostrare che la mortificazione della carne non è meno dannosa

della lussuria e che il desiderio stesso, dimensione fondamentale della vita, più che sradicato, vada piuttosto trasformato e utilizzato, secondo quanto

diranno successivi interpreti del Dharma, come combustibile per l’illuminazione.
Trascendere le varie forme di dualismo (tra assoluto e relativo, tra soggetto e oggetto, tra nirvana e samsara…), significa affermare il Dharma non-

duale, inteso non come medietà convenzionale, ma come medietà assoluta che elimina la nozione stessa di mezzo come opposto agli estremi.

Poiché parole e intelletto discriminante appartengono al mondo dualistico (anzi possiamo dire che "generino" il mondo dualistico!), ne consegue che

sono adatti ad esprimere le verità convenzionali e "penultime", ma non la Verità ultima. Occorre, per questo, mettere in gioco un’altra modalità

funzionale della mente: l’intuizione, capace di andare oltre i limiti dell’intelletto discorsivo, concettualizzante e
dualistico, e adeguata a realizzare la rivelazione in noi di quella natura, profonda e inesprimibile, di cui consistiamo e in virtù della quale esistiamo.

Come sottolinea Suzuki, l’idea fondamentale del buddhismo è di andare oltre il mondo degli opposti, un mondo costruito dalle distinzioni intelletuali e

dalle passioni, e realizzare un mondo spirituale di non-distinzione, che implica il raggiungimento di un punto di vista assoluto. Tuttavia l’Assoluto non è

in alcun modo distinto dal mondo della differenziazione, poiché pensarlo così significherebbe collocarlo all’opposto della mente discriminante e

creare in tal modo una nuova dualità. Quando parliamo di assoluto noi pensiamo che, essendo la negazione degli opposti, esso debba essere visto

in opposizione alla mente discriminante. Ma pensare così significa abbassare l’assoluto al livello del mondo degli opposti, con la necessità di un più

grande o elevato Assoluto che li contenga entrambi.
In breve, l’Assoluto è nel mondo degli opposti e non separato da esso. Ciò è apparentemente contradditorio e non diviene mai comprensibile

fintantoché rimaniamo in un mondo di opposti. Andare oltre questo mondo non aiuta e neppure stare in esso.
Di qui il dilemma intelletuale al quale ci sforziamo invano di sfuggire, [poiché] tutto ciò che uno può comprendere della verità deve venire dalla vita

[…] e non da un mero discorso sull’Assoluto […] Per esprimere il punto in modo più diretto e preciso, la distinzione è non-distinzione e la non-

distinzione è distinzione. Questo non è la negazione dell’intelletto o l’arresto del ragionamento, ma il tentativo di coglierne il fondamento per mezzo

della negazione-affermazione.
È solo attraverso questo doppio processo che l’intelletto può trascendere se stesso, poiché senza questo trascendimento l’intelletto non può mai

liberare se stesso dalle contraddizioni che intesse nel suo stesso seno.
[…] L’unione dei contrari, l’identità di distinzione e non-distinzione, è raggiunta per fede, che è esperienza personale, apertura dell’occhio della

saggezza trascendentale, pensiero di ciò che non è pensabile. […]
Quando la discriminazione è non-discriminazione e tuttavia discriminazione, noi abbiamo la perfetta illuminazione. Ciò è quel che può essere

chiamato coincidentia oppositorum .

Il buddhismo non è dunque una “religione del libro”, come, ad esempio, l’ebraismo o l’islam, né religione di un paese o di un popolo, come l’

induismo o lo shintoismo, per cui, con incredibile capacità di assimilazione, si è potuto adattare a realtà culturali diverse, dando luogo a molte scuole

e “veicoli”, che hanno fatto del buddhismo una religione aperta, capace di risposte appropriate a condizioni le più diverse.
Col passaggio al mahayana, o grande veicolo di liberazione (grande perché aperto a tutti gli uomini e non solamente agli asceti e ai monaci), si

assiste a qualcosa di paragonabile al passaggio dal Vecchio al Nuovo testamento della tradizione ebraico-cristiana e a una promozione a livello

cosmico dei concetti dell’insegnamento del buddhismo fondamentale, operata attraverso una serie di radicali trasformazioni.
La stessa concezione buddhologica ne risultò profondamente modificata: infatti, il Buddha non è più considerato un semplice maestro umano, ma

diviene essenza di tutta la realtà e coscienza dell’universo, per cui la sua non è vista soltanto come una illuminazione nel mondo, ma come la

illuminazione stessa del mondo.
Anche l’ideale di perfezione non è più quello dell’asceta distaccato dal mondo, ma quello del bodhisattva, che vive nel mondo, al servizio degli altri.

Il bodhisattva — scrive Murti — fa della salvezza di tutti il proprio bene. Pur avendone ogni diritto egli rifugge dal ritirarsi nello stato finale del nirvana,

preferendo per sua libera scelta di tribolare per un tempo indefinito anche per gli esseri che sono più in basso .

È la compassione che ora è al centro della pratica del bodhisattva, per cui tutto il cammino di purificazione spirituale subisce un profondo

cambiamento di significato.
Quando, per il misterioso concorrere di cause esterne ed interne, l’individuo sente di non poter fare a meno di indirizzare tutte le sue energie verso il

Buddha e il Buddha si volge verso l’individuo, si determina quel risveglio della mente-che-aspira-all’illuminazione (bodhicitta), che spinge a seguire la

via del Buddha intraprendendo il necessario cammino di disciplina spirituale (bodhicittotpada) . È il momento della “conversione” o grande

risoluzione, in cui il bodhisattva, sostenuto dalla fede nell’illuminazione, fa i grandi voti ed è pronto a iniziare il viaggio nella pratica delle paramita (o

perfezioni o virtù).
Il bodhisattva non “rinuncia” quindi al nirvana ma si emancipa dal raggiungimento di un falso obiettivo, vivendo l’unico vero nirvana nel “ritorno” al

mondo ordinario. Nel Sutra del loto il Buddha afferma che il nirvana (nella sua accezione di estinzione e assoluto) è stato da lui impiegato per salvare

gli uomini accecati dall’ignoranza e dominati dalla sete di esistenza: per questa ragione ho escogitato un mezzo abile, proclamando la via che pone

fine alla sofferenza e rivelandola mediante il nirvana. Benché io proclami il nirvana, questo non è vera estinzione. Tutte le cose, fin dal loro lontano

inizio, sono sempre state di natura nirvanica.

Dal punto di vista della Via di mezzo, come commenta Nagarjuna, il samsara è in nulla differente dal nirvana. Il nirvana è in nulla differente dal

samsara. I confini del nirvana sono i confini del samsara. Tra i due non c’è la minima differenza.

La concezione del nirvana nella dottrina della Via di mezzo ponendosi come liberazione da ogni tipo di dualismo, compresi quelli di bene/male e

piacere/dolore, tutti dualismi in ultima analisi fondati sul dualismo radicale io/non-io, comporta che la “liberazione” venga in sostanza a consistere

nella liberazione dall’ego-centrismo, cioè dall’illusione dell’io separato e contrapposto al non-io.
Secondo lo studioso giapponese Masao Abe, il vero nirvana è raggiunto solo emancipando sé stessi anche dal nirvana come trascendenza dell’

impermanenza. In altre parole, è realizzato mediante un completo ritorno dal nirvana al mondo dell’impermanenza, liberando sé stessi sia dalla

impermanenza che dalla permanenza, sia dal cosiddetto samsara che dal cosiddetto nirvana. Pertanto, il genuino nirvana è proprio la realizzazione

dell’impermanenza come impermanenza.
Se uno rimane nel nirvana trascendendo il samsara deve ancora esser detto egoistico poiché altezzosamente risiede nella propria “illuminazione”,

separato dalle sofferenze degli altri esseri senzienti legati al samsara. La vera compassione può essere realizzata solo trascendendo il “nirvana” per

ritornare e lavorare nel mezzo delle sofferenze del mondo in perpetuo cambiamento.

Possiamo ora comprendere che, da questo punto di vista, l’illuminazione stessa non è qualcosa che si possa considerare un obiettivo esterno da

raggiungere, dualisticamente di fronte a noi, poiché, come spiega il Vimalakirti Nirdesa Sutra tutti i Buddha e i grandi bodhisattva raggiunsero la loro

meta proprio perché erano liberi dall’idea di conquistare la suprema illuminazione. Infatti, tutti gli obiettivi implicano un dualismo, una distinzione tra

soggetto e oggetto (l’obiettivo da raggiungere). Solo superando tutti i dualismi e, in particolare, quello tra soggetto e oggetto sarà pertanto possibile

tornare alla purezza originaria della natura fondamentale, che “precede” la distinzione stessa tra ignoranza e illuminazione.
È interessante osservare come, essendoci per il bodhisattva una perfetta identità tra l’illuminazione propria e quella di tutti gli altri esseri senzienti, i

quattro grandi voti vengano a essere una reinterpretazione, in chiave altruistica, delle quattro nobili verità.
Infatti (seguendo l’insegnamento della scuola Tendai), possiamo stabilire queste corrispondenze tra “verità” e “voti”:

I) verità della sofferenza: per quanto incalcolabili siano gli esseri [che non riescono a uscir fuori dal ?usso samsarico], faccio voto di salvarli; II) verità

dell’origine della sofferenza:per quanto inesauribili siano le contaminazioni [di tutti coloro che non sono ancora liberi dalle illusioni], faccio voto di

eliminarle; III) verità del sentiero: [poiché ci sono quelli che non sono ancora fermi nella pratica e pertanto vanno rassicurati], per quanto innumerevoli

siano gli insegnamenti, faccio voto di padroneggiarli; IV) verità del nirvana: per quanto illimitata sia la via del Buddha [poiché ci sono quelli che non

hanno ancora raggiunto il nirvana e mio compito è proprio condurli al nirvana], faccio voto di percorrerla.

Realizzando la vacuità di una illusoria illuminazione “separata” e trovando proprio in questa vacuità il fondamento della compassione, la missione del

bodhisattva, puri?catore del mondo inquinato dall’ignoranza e dall’egoismo, è quella di prendere su di sé la sofferenza degli altri e puri?carla senza

lasciarsene contaminare. Come dice Saicho, fondatore (nell’anno 806) del Tendai giapponese:

Prendere il male su di sé e dare bene agli altri, dimenticare sé stessi e lavorare a beneficio degli altri, questo è l’obiettivo ultimo della compassione.


5. L’illuminazione non è cosa che possa conquistarsi con l’intelletto: l’insegnamento può indicare la via, ma l’esperienza ciascuno deve viverla in

prima persona, farla passare attraverso il proprio corpo.
“Comprensione intuitiva della interiorità delle cose”, “apertura dell’occhio spirituale”, “visione profonda della propria realtà”, “consapevolezza della

presenza nel mondo” sono espressioni che possono dare una qualche idea di cosa si intenda col termine illuminazione, cioè di quella chiarificazione

intellettuale [che], superando tutti i dilemmi, aiuta la mente a divenire calma e contenta, a essere in armoniosa relazione con il suo ambiente. Quando

la chiarificazione raggiunge questo stadio è nota come illuminazione, che è pensare l’Impensabile, differenziare l’Indifferenziato e il sorgere dell’

Assoluto nella coscienza.
Questo è anche noto come stato senza paura (S. abhaya), che origina dal grande cuore compassionevole di Kwannon, Avalokitesvara .

L’illuminazione (descritta come graduale o improvvisa: graduale, come la luce del sole nascente che progressivamente rischiara un territorio;

improvvisa come la subitanea accensione di una lampada che, d’un colpo, elimina il buio in un ambiente) è una specie di catastrofe mentale che

avviene d’un tratto, dopo un penoso e vano accatastare concetti e intellettualismo. La catasta ha raggiunto il limite, ora tutto l’edificio crolla, ma ecco

che si dischiude un nuovo orizzonte. Quando la temperatura è arrivata ad un certo punto, l’acqua ad un tratto si gela, il liquido si trasforma in solido

cessando di scorrere. Il satori sopravviene di sorpresa quando sentite di aver esaurite tutte le risorse del vostro essere. Espresso in termini religiosi,

esso è la rinascita; espresso in termini morali, è una valutazione diversa della relazione in cui si sta col mondo. Nel modo in cui questo ora si

presenta, scompaiono gli aspetti negativi creati dal dualismo, da ciò che, secondo la terminologia buddhista, è l’illusione (maya) generata dal

ragionamento e dall’errore.
[L’illuminazione] comporta il dispiegarsi davanti a noi di un mondo nuovo, prima non percepito a causa della confusione della nostra mente

dualisticamente orientata. […]. Il mondo non è più quello di prima; […]
ora tutte le sue antitesi e tutte le sue contraddizioni risultano conciliate ed armonizzate in un tutto organico e coerente.

L’essenza della pratica religiosa buddhista consiste proprio nell’acquisizione di un nuovo punto di vista, in quella conversione grazie alla quale la vita

ci si presenterà in modo più fresco, più profondo e più appagante. Ma questo è anche il massimo cataclisma spirituale che possa avvenire in una

esistenza. Il compito non è facile; è una specie di battesimo del fuoco e per ottenerlo occorre portarsi avanti attraverso tempeste, terremoti,

franamenti di montagne e sgretolamenti di rocce.

Questo non è in contraddizione con l’affermazione dell’importanza del “ritorno” alla vita quotidiana, alla “realtà” del mondo di tutti i giorni: non è la

realtà che cambia, ma il nostro punto di vista sulla realtà, con un salto paragonabile a quello di un cieco nato che improvvisamente acquisti la vista. Se

l’Assoluto è Vacuità, quindi vuoto anche del vuoto, la stessa trascendenza è trascesa e il mondo ordinario ritrovato e redento. È la “meravigliosità”

delle cose realizzata dal
Buddha, la rivelazione della Via di mezzo, del Dharma non-duale: dopo quella sorta di salto mortale che chiamiamo illuminazione, ogni cosa è

assolutamente la stessa e assolutamente diversa. Secondo il famoso detto del maestro Ch’ing-yüan (660-740):

Prima che per trent’anni avessi studiato lo zen, vedevo le montagne come montagne e le acque come acque. Quando giunsi a una conoscenza più

profonda, vidi che le montagne non sono montagne e le acque non sono
acque. Ma ora che ho raggiunto la vera sostanza del conoscere, sono in pace. Poiché ora vedo le montagne ancora una volta come montagne e le

acque come acque .

L’entità del cambiamento sarà proporzionale al bisogno e all’impegno, e, nelle sue realizzazioni più elevate, investirà l’esistenza nella sua totalità,

promuovendo una dimensione di libertà mai avvertita prima, un completo affrancamento dalla paura, una vita più “fluida”, “fresca” e “senza sforzo”

nella realizzazione delle proprie potenzialità. Con
elementare genuinità le parole di Pao-tz’u Wen-ch’in (Ý928 d. C.) esprimono questo modo di sentire:

Bevendo del tè, mangiando del riso,
passo il tempo come viene;
guardando giù verso il torrente, guardando su verso i monti,
come mi sento sereno e disteso!

Egualmente, i versi che accompagnano l’ultima di una serie di figure illustrative del percorso spirituale (ivi, p. 348):

Dovunque egli vada trova aria di casa;
come una gemma, egli spicca perfino nel fango,
come oro puro, risplende perfino nel fuoco;
lungo la via senza fine di nascita e morte egli va, sufficiente a sé stesso,
con qualunque cosa si trovi associato, egli si muove distaccato e a suo agio .

Trascendere, gettare via la mente dualista e discriminante, superare affermazione e negazione, intelligenza e cultura, soggetto e oggetto, immergersi

nel buio, morire a sé stessi per rinascere; un gesto solo e tutto è trasceso, come quando si taglia una matassa di filo: un taglio solo e risulta tutta

tagliata.
Alla domanda di Joshu "Cosa è il Tao?" (cioè il principio e la realtà fondamentale, la verità suprema e la via ultima), il Maestro Nansen rispose: "La

mente comune è il Tao", cioè la mente quotidiana nella sua immediatezza non-discriminante. Potremmo domandarci: "Se è così, perché abbiamo

bisogno che i santi e i saggi ci guidino e ci salvino?" Dice il Maestro Shibayama:

Questo significa che per raggiungere la nostra vera mente comune dobbiamo trascendere la mente comune, e che per trascendere veramente la

nostra mente comune e dualista serve una ricerca sincera e una disciplina faticosa. Quando avremo oltrepassato la barriera oltre la quale la nostra

mente comune è tutt’altro che una mente comune, potremo
tornare per la prima volta alla nostra vera mente comune originale, quella che ci mostra Nansen. "Il Tao è qui vicino, ma gli uomini lo cercano

lontano", disse un vecchio saggio. È detto anche: "Il Tao non ci è mai lontano, nemmeno per un attimo. Se lo fosse non sarebbe il Tao" .

6. Concludendo, vorrei fare ancora un richiamo alla pratica, ricordando l’aneddoto in cui si racconta come il poeta cinese Po Chu-i (772-846, periodo

della dinastia T’ang) rivolgesse al maestro Zen Niao-k’e quella stessa domanda, che costituisce il titolo di questo scritto, e cioè come definire l’

essenza dell’insegnamento del Buddha. Niao-k’e rispose citando un versetto del Dhammapada:

non fare il male, compiere il bene, purificare la mente (Dhp., 183).

Al che il poeta, un po’ deluso: "Anche un bambino di tre anni può comprendere questo insegnamento". E il maestro di rimando: "Questo può essere

compreso anche da un bambino di tre anni, ma metterlo in pratica è difficile anche per un uomo di ottanta".
In altri termini, non è necessario per la nostra personale liberazione ottenere complicate risposte che possono perfino produrre l’effetto di

allontanamento da ciò che dobbiamo effettivamente mettere in pratica; il risveglio non va rimandato domani, indugiando in una sorta di pigrizia

attendista, prigioniera dei nostri condizionamenti. Voglio ricordare, a questo proposito, un’iscrizione che ho letto, nel tempio Daisen-in di Kyoto, in cui

era detto tra l’altro:

Sono vivo – sono questo momento;
il mio futuro è qui e ora,
perché se non sono in grado di reggere l’oggi
quando e dove potrà mai essermi possibile?

Riccardo Venturini
da (con modifiche) La critica sociologica, 1994-95, n. 111-112

Da: http://groups.google.it/group/free.it.religioni.buddhismo/browse_frm/thread/
b1b8d74eccbe7354/507898b2ebfa8188?hl=it#507898b2ebfa8188

 



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