LA DEMOCRAZIA OCCIDENTALE E GLI SQUILIBRI DEL PIANETA
di Giogio Galli
Quando mi è stato proposto di partecipare a questa iniziativa dell’Associazione Amaranto (che non conoscevo e sono lieto di conoscere in questa occasione) ho proposto il tema che sto trattando in seguito ad una valutazione che già mi è accaduto di fare con amici che sono qui, a proposito di seminari su queste tematiche: la nascente coscienza planetaria, un’impostazione olistica dei problemi della società e di crescita individuale.
Quando si affrontano queste tematiche accade di costatare che la dimensione politica è raramente presa in considerazione; probabilmente, per quanto riguarda l’Italia, per l’eccesso d’impegno politico di una generazione precedente e anche, per quanto riguarda l’ultimo decennio, di speranze ed ipotesi di trasformazione che poi non si sono verificate. Ciò può dare una spiegazione di questo scarso interesse per la tematica politica delle iniziative che hanno come tema di fondo la coscienza planetaria o il paradigma olistico. Tuttavia credo che sia importante che questo nuovo approccio ai problemi del pianeta tenga conto non tanto della dimensione politica tradizionale, quanto delle occasioni e delle possibilità che si manifestano in una nuova visione della politica.
Di ciò, ripeto, v’è poca traccia, eppure è importante averlo presente; siamo, secondo me, in una fase di crisi delle istituzioni politiche e, mi pare, anche di crisi della forma che ha accompagnato lo sviluppo dell’occidente. Il titolo della conversazione che ho proposto parte da una considerazione basilare, che in questi ultimi anni è divenuta percepibile ad una grande maggioranza dell’opinione pubblica occidentale, ma, forse, in misura non ancora sufficiente. Teniamo conto che nei paesi dell’Occidente, dove si sono sviluppate le forme istituzionali della democrazia rappresentativa, vive il 20% della popolazione del pianeta che ne consuma l’80% delle risorse. Proprio per la nascita di una nuova coscienza planetaria o per adottare un paradigma olistico, la prima domanda da porsi è: questo squilibrio, che è uno squilibrio fondamentale, se si vuol parlare in termini di coscienza planetaria, può durare? E’ così fuori delle normali concezioni dell’equità e della distribuzione razionale delle risorse che può determinare seri problemi? Non diciamo contingenti, non parliamo della situazione dopo l’11 settembre o di quella che sta maturando nel Medio - oriente, diciamo in generale.
Immaginiamo un pianeta nel quale il 20% della popolazione utilizza l’80% delle risorse, mentre l’80% della popolazione ne utilizza solo il 20%, pensiamo alla sproporzione tra quantità d’acqua consumata da noi ed il fatto che un miliardo e 200 milioni di persone non dispongono d’acqua sufficiente per i bisogni normali dell’organismo. Si può affermare che questa sia una situazione che può durare, che possa reggere, può sembrare non equilibrata dal punto di vista dell’equità, ma tuttavia può reggere, ed allora, in questo caso, non si pongono problemi. Io appartengo a quella corrente di studiosi che ritengono che questo squilibrio possa durare solo a patto di accentuare le condizioni dello squilibrio stesso, delle ingiustizie, e di costruire anche nelle nostre società più avanzate situazioni di vita non orientate al vivere meglio, come giustamente propone il tema di questo convegno, ma al vivere peggio.
Infatti, come enuncia una parte della stessa cultura occidentale, il rapporto di logica fra padrone e servo implica che, quando i servi vivono particolarmente male, finiscono per vivere male anche i padroni dei servi. Questa, probabilmente, è un’ipotesi che ritengo ragionevole; poi si può ritenere che una minoranza del pianeta possa continuare a vivere meglio a condizione che la maggioranza del pianeta viva peggio; non è detto che da un punto di vista astratto questo tipo d’equilibrio-squilibrato non possa reggere, forse potrebbe anche reggere, ma, appunto, io appartengo a quella corrente di pensiero che ritiene difficile che possa reggere se non a prezzo di vivere peggio tutti, i privilegiati ed i non privilegiati.
Da questo punto di vista nascono le considerazioni su come possiamo vedere la tematica politica alla luce di questa prima considerazione. Il punto che va elaborato, sotto il profilo politico, è che la democrazia rappresentativa, la forma che ha permesso all’Occidente di svilupparsi e di proporsi addirittura come modello mondiale, che ha attraversato fasi di grande sviluppo, ha permesso il miglioramento delle condizioni materiali di vita, un uso razionale delle risorse, possiamo ritenere abbia garantito diritti politici e civili in misura superiore ad altre forme d’organizzazione sociale che noi conosciamo dalla storia, ma questi risultati, che possono certamente essere ritenuti positivi, hanno condotto ad una situazione, proprio dal punto di vista della democrazia rappresentativa, che a me pare di crisi. Questo è un altro tassello della rete interpretativa che vogliamo costruire.
La maggioranza degli studiosi non sono dell’opinione che la democrazia rappresentativa sia in crisi, pensano che essa non solo funzioni perfettamente ma che si stia estendendo ovunque, appunto a livello planetario. Chi ha questa convinzione può sospendere ogni ulteriore riflessione sulla problematica politica. Può ritenere che la democrazia rappresentativa funzioni e che continuerà a funzionare anche dove non ha funzionato mai e quindi che questo non è un problema che si debba affrontare. Invece c’è una corrente minoritaria del pensiero politico che ritiene che la democrazia rappresentativa sia in crisi proprio nell’area nella quale si è storicamente affermata, l’area che dal punto di vista economico è caratterizzata dal rapporto 20% della popolazione 80% delle risorse. E’ in crisi in quest’area, che poi è anche la sola nella quale la democrazia rappresentativa ha funzionato, perché il secondo punto di vista, quello che io propongo, e che mi sembra fondato su una ragionevole considerazione che prende in esame la storia degli ultimi tre secoli, è che si possono misurare i risultati della democrazia rappresentativa.
Nei paesi in cui ha funzionato abbastanza a lungo, diciamo dalla rivoluzione inglese del 1640 in poi, (quindi ormai lungo l’arco di tre secoli e mezzo con una certa continuità, con interruzioni in certi periodi, con guerre e difficoltà, ma con una certa continuità d’esperienza politica) in queste aree, si può misurare il funzionamento, e quindi anche eventualmente la crisi, della democrazia rappresentativa.
Non credo che siano significative le esperienze formali di democrazia che avvengono in tutto il pianeta. Ogni anno ci sono elezioni in 10 – 15 – 20 paesi, persino nel Kashmir; il fatto che si voti nel Kashmir, dove è in corso una guerra civile da mezzo secolo, dà a questa elezione uno scarsissimo significato. In questi giorni si è molto parlato di una possibile svolta nelle elezioni brasiliane, con la possibile vittoria, per la prima volta dopo decenni di dittatura militare, di uno schieramento che si colloca nel centro-sinistra. Si è votato persino in Pakistan dove esiste una dittatura militare. Ecco, io credo che valutare questi paesi nelle esperienze dette democratiche sulla base di elezioni periodiche e sporadiche degli ultimi decenni non abbia senso alcuno. Non ha senso neanche per il Giappone dove la democrazia rappresentativa è stata importata dopo la sconfitta – Hiroshima – con una concessione al vincitore americano. La democrazia, tuttavia, funziona con criteri del tutto incompatibili con una democrazia rappresentativa quale noi viviamo in Occidente.
Il secondo punto dal quale partire, cioè la democrazia rappresentativa in crisi, assume che la stessa sia in crisi nei paesi dove si può fare un bilancio di tre secoli e mezzo. Dove non si può fare questo bilancio, a mio avviso, non si può neanche parlare di democrazia rappresentativa, non certamente sulla base delle sporadiche cerimonie elettorali degli ultimi decenni, spesso interrotti dal colpi di stato, da dittature militari e così via.
Volendo dare un contributo al sorgere di una coscienza planetaria per vivere meglio, all’affermarsi di un nuovo paradigma olistico, occorre partire da tre constata-zioni fondamentali:
- la non equa distribuzione delle risorse del pianeta;
- solo per l’area privilegiata si può parlare di funzionamento della democrazia rappresentativa lungo un periodo storico sufficientemente lungo che ne consenta valutazioni;
- altrove non si possono prendere in considerazione come democratiche esperienze elettorali sporadiche.
Credo che questi argomenti siano tali da meritare una riflessione: la politica tradizionale, quella che generazioni d’italiani, o anche generazioni di abitanti degli Stati Uniti, hanno vissuto negli anni passati, non attrae più. Uno degli elementi di crisi, appunto, della democrazia rappresentativa è la scarsa attrazione che esercita, anche in Occidente, proprio nei paesi dove si è affermata da tre secoli e mezzo dove possiamo constatare che non suscita più quell’entusiasmo che dovrebbe suscitare. Il secolo appena trascorso è stato caratterizzato da una contrapposizione, soprattutto nella seconda metà, dopo il 1945-50, tra un cosi detto mondo libero, caratterizzato dalla democrazia rappresentativa, ed i paesi cosiddetti del socialismo reale.
Dopo il crollo dell’impero sovietico era diffusa l’aspettativa di un grande entusiasmo per la democrazia rappresentativa, ipotesi che non si è affatto realizzata. In genere la partecipazione al voto in questi paesi è attorno al 60%. Caso abbastanza tipico è quello dell’ex Iugoslavia. Sembrava certa l’aspirazione degli iugoslavi alle libere elezioni dopo la caduta della dittatura. Tuttavia, sotto il profilo formale, alle ultime elezioni di 15 giorni fa ha partecipato il 45% delle persone, quindi non sembra che ci sia questo grande entusiasmo.
Non è però su questi paesi che dobbiamo misurare l’attrazione che esercitano i sistemi, ma su quelli di lunga democrazia. Avrete letto in questi giorni una di sorta di plebiscito per Bush nelle elezioni americane. Ora questo plebiscito consiste nei voti ai candidati repubblicani per i governatorati, per metà del senato e per la camera dei rappresentanti repubblicani, dove i repubblicani hanno raccolto meno del 20% dei voti validi, certamente battendo i democratici che ne hanno avuti circa un 15%. In un paese di consolidata democrazia solo un terzo degli elettori ha espresso un voto valido in elezioni che in linea di principio avrebbero dovuto suscitare un grandissimo interesse, in un paese che ha vissuto il dramma dell’11 settembre, che ha avviato quella che è stata definita la guerra al terrorismo e che si trova alla vigilia d’importanti decisioni che potrebbero comportare un’estensione del conflitto nelle aree irachene. Anche secondo una logica illuminista (che informa filosoficamente la democrazia rappresentativa, e sancisce l’interesse del cittadino evoluto e cosciente a partecipare al processo decisionale - tanto più in una situazione particolarmente ricca di tensioni), se in questi paesi durante elezioni importanti solo un cittadino su tre ritiene di esprimere un voto, evidentemente ciò può essere ritenuto un indice di forte disaffezione per la democrazia rappresentativa.
Tutti avrete sentito per due o tre giorni i media parlare del plebiscito per Bush, ma che plebiscito è in un paese all’avanguardia, dove la democrazia rappresentativa appunto funziona e già in parte funzionava quando vi erano le 13 colonie britanniche, che ha avuto la prima importante costituzione democratica, addirittura sulla base del principio che il governo deve impegnarsi a realizzare e a permettere che i cittadini siano felici. Bene, in questo paese che ha queste plurisecolari tradizioni, e proprio per questo è un paese sul quale si può misurare la validità del funzionamento ed il grado d’affetto che il cittadino ha per le istituzioni, da un lato si hanno questi risultati reali, un indice evidentissimo di non partecipazione, e dall’altra i media che interpretano questa non partecipazione come un plebiscito a favore di un Presidente che ha l’impostazione politica e che esprime la visione a proposito di coscienza planetaria che tutti conosciamo.
Ho fatto esempi pratici e concreti, anche recenti, alla luce di una riflessione più generale, più ampia, che è quella appunto di voler contribuire alla nascita di una coscienza planetaria, anche se io sono meno ottimista degli amici coi quali discuto questa tematica. Secondo me questa coscienza è ancora in uno stato embrionale, si sta appena delineando, non è in uno stadio di cosciente e diffusa maturazione. Se si vuol consolidare il nuovo paradigma olistico bisogna riflettere anche sulla politica.
E’ certamente importante sperimentare nuove modalità di relazioni interpersonali, nuove modalità di crescita personale: tutto questo è importantissimo e decisivo, senza questo tipo d’approccio non nascerà una nuova coscienza planetaria, ma io credo che contemporaneamente sia necessario tornare a riflettere sulla dimensione politica, non tanto sulla politica tradizionale, quanto su nuove modalità d’essere politici, in sintonia con quest’altra fenomenologia di nuove relazioni interpersonali e di crescita personale. Credo che sia importante anche tener conto della dimensione della politica in misura superiore a quanto non sia avvenuto finora. Penso che questo convegno sia una buona occasione per far presente quella che io ritengo sia una necessità per riflettere anche sulla dimensione politica di questa nuova coscienza nella fase embrionale, avendo anche presente lo squilibrio fondamentale di cui ho detto all’inizio.
Senza una profonda comprensione, senza avere profondamente assimilato questa situazione di profondo squilibrio che naturalmente accresce di molto la responsabilità individuale e di gruppo di chi vive nelle aree privilegiate del pianeta, senza questo tipo d’approccio, la nascita di una coscienza planetaria sarà più difficile e certamente più lenta di quanto potrebbe essere se questa dimensione venisse affrontata.
Atti del convegno "verso la nascita di una coscienza planetaria" dell’Associazione Amaranto
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