GLOBALIZZAZIONE E CULTURE CONTRO VECCHI E NUOVE SUPERSTIZIONI
Ulderico Bernardi – Università di Venezia
E’ spuntata appena qualche anno fa, imponendosi dapprima nella gergata degli economisti, ma ora no c’è contesto linguistico i cui non trovi uso. Intendo la parola globalizzazione. Dilatata al punto da divenire addirittura scenario, premessa indispensabile di ogni considerazione d’ordine socio-politico, socio-culturale, socio-economico. La gestazione del termine va riferita a mamma deregulation, che l’ha concepito per l’abuso di babbo global village. Nozze ideologiche, benedette dal neo-liberalismo reso euforico dalla decadenza e caduta dell’economia pianificata, e più in generale del socialismo reale. La rilocalizzazione delle imprese, l’organizzazione del lavoro post-fordista, le necessità di un mercato più flessibile, i nuovi trionfi dell’innovazione tecnologica, piuttosto che essere colti per quello che sono, cioè fenomeni che toccano una parte, sia pure importantissima, delle relazioni umani attinenti alla sfera economica, sono stati enfatizzati in senso esistenziale e usati per strumentalizzare il concetto di villaggio globale proposto all’alba della rivoluzione mediatica da Marshall McLuhan. Nel gran polverone sollevato dallo stramazzamento del sistema sovietico, gli adoratori del mercato-unico-dio hanno tentato di far passare i confini della liceità a vecchie superstizioni economicistiche. A partire dall’idea che economia e società sono cose distinte. Che il mondo andrà a gonfie vele se solo si riconosce alla prima l’irriducibilità a ogni controllo, freno collettivo, e vincolo pubblico. L’intento ormai non più sussurrato è quello della economicizzazione del mondo in ogni sua componente: umana, vegetale, animale, minerale. Per il suo bene. Corollari a tanta certezza sono il primato della tecnica, comunque applicata; l’indifferenza alle specificità delle culture; il supremo metro del prezzo, assunto come misura d’ogni valore. L’uniformità come progetto, o per meglio dire l’intenzione di costruire un mondo conforme alla logica dell’estremizzazione liberista, vede la sua testa serpentina mordere ormai la propria coda, chiudendo il cerchio della vocazione totalitaria. Enormi mezzi per incommensurabili interessi. A cui tutto deve piegarsi: popoli, continenti, etiche, religioni. Il trionfo della meccanica marxiana aggiustata all’iper-capitalismo, dove la parola globalizzazione si sostituisce ai rapporti sociali di produzione, e tutto diventa sovrastruttura. Il determinismo storico e dialettico non è stato sconfitto, ma è stato rimanipolato. Anzi, nella globalizzazione così concepita, lo si è ammantato nella veste rutilante del fato. Antico nemico, tentatore, che il cristianesimo aveva combattuto con efficacia, e ora torna con tutte le sue superstizioni. La Chiesa lo contrasta nei viaggi e nelle parole del Pontefice. Ma è una battaglia aspra, continua, e dagli esiti tutt’altro che scontati.
Pluralismo delle culture e creatività sociale.
Il fatalismo dell’economicizzazione trabocca da tutti i media, insidia le scuole di pensiero, penetra tra tutti i popoli del mondo. Esaspera con le sue induzioni sradicanti. Genera reazioni eguali e contrarie, nella ferocia degli integralismi islamici, nelle chiusure etnocentriche delle orribili pulizie etniche. Ma contro questi fanatismi insorge il pluralismo delle culture, nelle concrete espressioni di reti di relazione nient’affatto disposte a rinunciare ai loro valori, alla fede, alla loro storia tutta umana di esperienze ed errori, alle loro diversità ambientali, alla creatività dell’uomo libero, capace di gestire l’economico nel sociale. Quanto più si accresce la pressione di chi vuole sfondare ogni limite, travolgendo l’ultima resistenza che separa il possibile dal lecito, tanto più si affermano opzioni che dichiarano non sradicabile la consapevolezza dell’appartenenza comunitaria. E ritrovano, su questa via, qualche filone di pensiero rimosso. Come quello di Karl Polanyi (1886-1964), che in vita di coerenza si era battuto contro l’idea dell’esistenza di leggi scientifiche (nella concezione del positivismo, naturali) fatalmente date, e perciò immodificabili, riguardanti lo sviluppo dell’umanità. In un suo scritto giovanile affermava: non c’è mai stata una superstizione tanto assurda quanto la credenza che la storia dell’uomo sia governata solo da leggi indipendenti dalla sua volontà e azione… Il futuro viene continuamente rifatto da coloro che vivono nel presente. Solo il presente è realtà. Non c’è futuro che possa conferire validità alle nostre azioni nel presente. Quanti delitti si sono consumati, contro persone e popoli interi, in nome di un futuro radioso di classi liberate. Il massacro si giustificava nella necessità di costruire la bella società. Il rischio che il neo-liberalismo della globalizzazione fatale si porta in seno è enorme, nella sua implicita ostilità alle diversità culturali, viste comunque come ostacoli alla perfetta realizzazione della società uniformizzata, beneficata dal mercato, supremo reggitore. Karl Polanyi fa continuo riferimento nella sua opera all’indispensabile ancoraggio etico. Con una dura critica rivolta alla fallacia economicistica, alla quale, a suo parere, soggiacevano tanto il marxismo che il liberismo. Il pericolo per la libera creatività è il conformismo, l’omologazione. E la cultura popolare era vista da lui come il deposito secolare di una saggezza capace di sottrarsi ai condizionamenti storici e di mercato. La creatività sociale può e deve attingere all’esperienza del passato. Questo spiega l’interesse per la tradizione di ciascun popolo, e il rispetto dovuto all’anziano, marginalizzato da visioni del mondo indifferenti al vincolo di continuità. Ma a spiegare l’attualità del pensiero di Polanyi, soccorrevole nel momento in cui ogni sforzo va dispiegato per battere il dilagante fatalismo della globalizzazione intesa come insieme di processi omologanti e inarrestabili, è la sua critica più severa rivolta al cuore del liberismo, all’idea cioè che la ricerca della massimizzazione del profitto sia elemento universale e caratteristico del procedere economico. Paradigma dirompente, che distrugge ogni valore di solidarietà, e cancella dall’orizzonte del mondo ogni sistema culturale fondato sul dono e sullo scambio praticato da popoli di ogni continente. Nella visione di Polanyi il primato torna alla responsabilità delle persone, che si sottraggono all’imperativo categorico del profitto come unico fine, così come al dominio dei tecnocrati che si reputano depositari di questa fatale verità, si fanno coro media e istituzioni conformizzate. Nella visione di Karl Polanyi l’economia non può essere disembedded, scorporata, dalla rete di relazioni sociali, perché la conseguenza ne sarebbe il conflitto Habitat versus Progresso.
L’economia disumanizzata è fonte di scontri e non di scambi. Per cui l’associazione fra ricerca economica e ricerca socio-antropologica diventa essenziale se non si vuole che la progettualità si svuoti di senso. L’homo oeconomicus va ricollocato all’interno della dimensione globale dell’homo, che è tante altre cose, tra cui, fin dall’origine delle culture, dalle misteriose rappresentazioni dell’orante graffite sulle pareti rocciose, homo religiosus. Il portato giudaico-cristiano è fondamentale per Karl Polanyi, e sta alla base dei processi che hanno portato alla civiltà dell’occidente, con il suo riferimento alla persona, nella sua integrità, dentro al cerchio dell’appartenenza comunitaria. Egli vede in Cristo il più forte assertore dell’unicità della persona. “Gli uomini hanno un’anima da lasciare”, scrive Polanyi, “è solo un altro modo per asserire che hanno un valore infinito come individui. Dire che essi sono solo uguali è solo riaffermare che hanno un’anima. La dottrina della fratellanza implica che la persona non esiste al di fuori della comunità. La realtà della comunità è la relazione di persone” (1). L’uomo consapevole della sua morte riempie di senso la sua vita con il lavoro, la famiglia. Nella sua esistenza sarà chiamato a partecipare e a scegliere: “Non possiamo negare il potere nella società”, scrive Polanyi a Donald Grant, “alle origini del quale non c’è altro che i desideri, le speranze, i timori, i giudizi morali degli uomini. Ciò di cui siamo responsabili è il tipo di potere che stiamo contribuendo a creare: un potere per il bene o un potere per il male, poiché questo dipende essenzialmente da noi"”
L’organizzazione collettiva, la società concreta dell’uomo, si realizza nelle sue relazioni definite entro uno specifico riferimento territoriale, con le sue risorse umane e naturali, con i comportamenti e gli stili di vita propri a ogni cultura. Se l’insieme delle risorse messe a disposizione dell’uomo non sono guidate da un intendimento morale e da un orientamento verso il bene, insiste Polanyi, finiscono col ritorcersi contro di lui per opprimerlo. Ed è quanto avviene nel consumismo, sradicatore di culture. La causa della degradazione non è, come spesso si è voluto asserire, lo sfruttamento economico, ma la disgregazione dell’ambiente culturale della vittima. Il processo economico può naturalmente rappresentare il veicolo di questa distruzione, e quasi sempre l’inferiorità economica porterà il più debole a cedere, ma la causa immediata della sua distruzione non è per questo economica; essa si ritrova nella ferita mortale alle istituzioni nelle quali la sua esistenza è materializzata. Il risultato è la perdita del rispetto di sé e dei valori, sia che l’unità sia un popolo o una classe, sia che il processo abbia origine da un cosiddetto conflitto culturale o dal cambiamento nella posizione di una classe all’interno dei confini di una società” (2). Il ruolo delle culture, con le loro specificità, con la loro diversità, è fondamentale nel dettare le condizioni dello sviluppo, perché assicuri effettivo progresso nel benessere comunitario, effetto composito dell’emancipazione nella continuità. L’economia escissa dal tessuto sociale influenza negativamente la vita familiare, il comportamento politico, la socializzazione, l’espressione artistica, il riferimento religioso. “L’obsoleta mentalità di mercato”, ebbe a notare Polanyi, “è (…) l’impedimento principale ad un approccio realistico ai problemi economici dell’era a venire” (3).
Radicamento e confronto mondiale
Un convincimento, questo, e un’intuizione che si è rivelata profetica riguardo al presente, dentro a una società che da un lato si conferma giacobina nell’ostinazione con cui inventa nuove ideologie (il globalismo), mentre la sua post-modernità rimette in discussione ogni forma di autorità stabile (la Chiesa, lo Stato). L’effettiva mondializzazione dei processi tecnologici, delle relazioni economiche e dell’informazione, non può essere trasposta meccanicamente ai riferimenti culturali. Il pianeta resta villaggio globale di molte tribù, poiché è nel concreto delle culture locali che la persona umana definisce la sua identità. In rapporto a una accumulazione culturale specifica, che fa riferimento all’ambiente e alla storia, con tutti gli elementi di cultura materiale e extra materiale (dalla lingua alla ritualità collettiva, dall’espressione religiosa alle forme architettoniche, e così via), al cui centro sta un nucleo di valori trasmessi attraverso le generazioni (4). La cultura universale dell’uomo non esiste in astratto, ma nell’effettivo universo di culture, ciascuna delle quali è stata capace di soddisfare in modo specifico i bisogni di una data comunità. Ed è a questo scenario consueto che si rivolgono le persone, nel momento in cui aumentano le opzioni ed è necessario compiere delle scelte che implicano un criterio valoriale. Questo spiega l’insorgere dell’etnicità in pari con l’accelerazione die processi di globalizzazione. Bisogno di radicamento e partecipazione al confronto mondiale inducono la persona non omologata a rafforzare la sua appartenenza, per gestire le innovazioni e non esserne gestito. In un’epoca che carica di responsabilità a tutto campo l’individuo, nel far fronte a un ventaglio di scelte quali mai l’umanità aveva conosciuto, dentro a un irrinunciabile pluralismo culturale, religioso, etico, si pongono con urgenza le necessità di rimodellare la gestione del potere politico secondo principi di sussidiarità, e di rinsaldare i riferimenti etici attuando quella che è stata chiamata la “rimoralizzazione dello spazio umano” (5). La costruzione dell’identità personale non può prescindere dal vincolo di appartenenza a una comunità di destino, non data una volta per tutte, ma assunta in una continuità di relazioni culturali dove il consenso al presente sociale si determina nei riferimenti radicali al passato. La stabilità diventa condizione per sostenere l'accelerazione verso il futuro, in una società costituita da un insieme di relazioni esistenziali, collettive, interrelate, articolare nei diversi ambiti della famiglia, delle comunità locali, dello Stato, del mercato, dei corpi intermedi, convergenti al fine comune “di connettere universale e particolare” (6).
Ha osservati Pierpaolo Donati che la società italiana, manifestamente in crisi dal punto di vista della coesione sociale e della condivisione intorno a valori essenziali (particolarmente grave nel momento in cui la sua plurietnicità si accresce), si trova in questa situazione per un deficit di etica civile, che tuttavia non viene riconosciuto, per cui le istituzioni centrali evitano di compiere scelte etiche, inseguendo proposte di ingegneria sociale, per cui “i temi della civiltà e della connessa cittadinanza sono trattati come problemi tecnici, più che come dilemmi etici” (7). La conseguenza è uno stato di progressiva disgregazione sociale che scarica i suoi costi sui giovani e sugli immigrati, cioè su quelle categorie di cittadini nelle quali è più forte il bisogno di integrazione, e che finiscono per sentire frustrata questa esigenza. Integrarsi a che cosa, se i valori centrali di riferimento, nella loro essenzialità sovra-etnici, sono sottodeterminati e abbandonati di fatto alla disgregazione conseguente alle non-scelte, all’opzione amorale? Angoscia, violenza rivolta contro se stessi e verso l’esterno, conflitti etnici e generazionali, nascono, con altre cause, da questa situazione. In definitiva, solo la vivacità dei corpi intermedi, nelle molte forme dell’associazionismo spontaneo non partitico, del volontariato altruistico prevalentemente d’ispirazione religiosa e ecclesiale, suppliscono nel produrre elementi di coesione sociale. La società civile, più che lo Stato, persegue con tenacia la finalità di un nuovo patto sociale, il cui presupposto è una rinnovata condivisione di valori. E’ dunque a questi ambiti, dove la responsabilità e l’iniziativa personale, in un quadro di riferimento comunitario, vengono interiorizzati e messi alla prova, che va restituita la pienezza del ruolo sociale e culturale. Lo ribadisce, con tutta l’autorità morale che gli è propria, Papa Giovanni Paolo II, nell’enciclica Centesimum annus, dove ha sottolineato che “la responsabilità principale in questo ambito appartiene non allo Stato ma agli individui e ai vari gruppi e associazioni che formano la società” (n. 48). Una società consapevole dei vincoli che la persona mantiene con la sua rete di appartenenze primarie. Per troppo tempo si è dato per scontato che l’approdo alla modernità sarebbe consistito, per la persona, nell’abbandono delle fedeltà originarie rivolte al gruppo familiare, all’etnia o alla razza, per trasferirle su altri gruppi socialmente rilevanti, come la classe, in base a scelte razionali. In anni recenti questo convincimento è stato ribadito per giusta reazione all’esaltazione razzista di questi vincoli da parte di efferate ideologie totalitarie. Ma in un clima di emancipazione collettiva, nella prospettiva di democrazia delle culture consentita anche dalla disponibilità di quelle dotazioni tecnologiche che pure partecipano dei processi di globalizzazione, i riferimenti alle appartenenze primarie tornano a porsi come irrinunciabili, senza ambizioni prevaricanti. La persistenza dell’etnicità è riscontrabile ovunque nel mondo. E altrettanto si può dire del riconosciuto valore della famiglia. Il male è piuttosto la degenerazione di questi sentimenti nella chiusura etnocentrica e familistica. Disvalori da cui emana l’odio verso l’altro, nelle forme della pulizia etnica e del rifiuto alla solidarietà comunitaria. La sfida posta dal presente è il mantenimento dell’omogeneità culturale, che l’appartenenza familiare ed etnica consentono, nel pluralismo delle culture che l’accelerazione della mobilità umana mette a confronto. La cultura determina i modi di pensare, di apprendere, di lavorare, di percepire le proprie emozioni, di creare opere d’arte, d’innovare la produzione, di pregare, di adottare codici di comunicazione. Nella sua dinamica globale coinvolge l’individuo e le istituzioni, lo Stato, le organizzazioni sociali, le relazioni interpersonali, l’assetto burocratico. L’accettazione del pluralismo culturale, che non ha alternative se non nel totalitarismo planetario o localistico, comporta la necessità di una socializzazione al plurale, che consenta di apprendere i valori e il costume delle culture altre dalla propria, riconoscendone la diversità e rifiutandone la gerarchizzazione. Il principio è che ogni gruppo va aiutato a conoscere, conservare, tutelare e rielaborare il proprio patrimonio ereditario, acquisendo consapevolezza della pari dignità di ogni altro, impegnandosi nel comune rispetto dell’integrità della persona umana. La costruzione della storia procede sulla base dei lasciti delle precedenti generazioni. Quanto più lo si riconosce, tanto più solido sarà l’avvenire comune, vissuto in piena coscienza di una civiltà che si è formata e cresce negli scambi, non nelle chiusure. Nella società che non volta irrealisticamente le spalle al globalismo tecnologico, informativo, economico, ma si guarda bene da estenderne il significato e la ineluttabilità all’ambito complesso delle culture umane, diventa obbligo di sopravvivenza riconoscere la pluralità etnica come dato di fatto della storia umana, ma al tempo stesso farne conseguire la indispensabilità dell’educazione all’interculturalità in quanto valore. Una scelta impegnativa, che coinvolge ogni agenzia socializzante. A partire dalla famiglia, dove più spesso si installa il germe del pregiudizio, in una trasmissione di stereotipi che sono il brodo di coltura delle future azioni discriminanti nei confronti di gruppi diversi dal proprio. Ma corpose responsabilità si riversano sugli strumenti di comunicazione sociale, la cui influenza, pur se talvolta sovradimensionata, resta assai reale. Altrettanto va detto riguardo alla Chiesa, alle istituzioni e alle organizzazioni sociali. Un ruolo primario spetta anche alle comunità d’impresa, nella visione di un’economia non estranea all’insieme delle relazioni collettive. Anzi, la perdita d’influenza di molte agenzie di socializzazione che in altri tempi concorrevano alla formazione del senso collettivo, e all’interiorizzazione dei modelli etici di riferimento, lascia ampio margine d’azione educativa alle imprese, dove l’interculturalità come valore può essere immediatamente compreso nel valutare l’efficacia di comportamenti non ostili, socialmente e culturalmente, tra tutti coloro che sono partecipi dello sforzo produttivo.
(Estratto da “LA SOCIETA’” aprile-giugno 1998)
Note (1) K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974, p. 340. (2) Ibid., pp. 233-234. (3) K. Polanyi, Economie primitive, arcaiche e moderne, Einaudi, Torino 1980. (4) Su questi aspetti della relazione socio-antropologica, cfr.: U. Bernardi, Culture locali, senso soggettivo e senso macrosistemico, Franco Angeli, Milano 1989; Id., L’insalatiera etnica, società multiculturale e relazioni interetniche, Nei Pozza, Vicenza 1992; Id., La Babele possibile, per costruire insieme una società plurietnica, Franco Angeli, Milano 1996; Id., Del Viaggiare, turismi e culture, Franco Angeli, Milano 1997. (5) Cfr. Z. Bauman, Le sfide dell’etica, Feltrinelli, Milano 1996, p. 244. (6) Cfr. P. Donati, Il problema dell’etica civile e il caso italiano, Introduzione a P. Koslowski – D. De Kerckhove – J.C. Alexander, L’etica civile alla fine del XX secolo, tre scenari, a cura di P. Donati, Mondadori, Milano 1997, p. 18. (7) Ibid., p. 19.
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