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Richard of St. Victor

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ECONOMIA CONSAPEVOLE
Etica e spiritualità per una nuova
economia consapevole e sostenibile
ECONOMIA CONSAPEVOLE
DI FRONTE AL FETICISMO DEL DENARO
L'ETICA E' INSUFFICIENTE

DI FRONTE AL FETICISMO DEL DENARO<BR>L'ETICA  E' INSUFFICIENTE
Raoul Vaneigem
Di fronte al feticismo del denaro, l'etica, necessaria quanto si vuole, è insufficiente. Sperare di moralizzare gli affari é vano quanto incitare ad una maggior igiene chi vive su un cumulo di spazzatura. Niente, in compenso, é più apprezzabile della libertà di parola concessa a tutti affinché una fioritura di idee nuove presieda alla ricostruzione dell'esistenza individuale e della società in un momento in cui un sistema fondato sulla ricerca esclusiva del denaro che rovina i
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LA SERENITA' INTERIORE
Plutarco

Gli insensati disprezzano e trascurano
perfino i beni di cui dispongono
perché con il pensiero
sono perennemente protesi verso il futuro
UN'ALTRA ECONOMIA: CARTA DEI PRINCIPI
UN'ALTRA ECONOMIA: CARTA DEI PRINCIPI
1. Sono comprese nella definizione di altra economia, intesa come diversa e alternativa a quella oggi dominante, tutte le attività economiche che non perseguono le finalità del sistema economico di natura capitalistica e di ispirazione liberista o neo liberista. In particolare sono da essa rifiutati gli obiettivi di crescita, di sviluppo e di espansione illimitati, il perseguimento del profitto ad ogni costo, l’utilizzazione delle persone da parte dei meccanismi economici e nel solo interesse di altre persone, il mancato rispetto dei diritti umani, della natura e delle sue esigenze di riproduzione delle risorse.
2. Le attività di altra economia perseguono il soddisfacimento delle necessità fondamentali e il maggior benessere possibile per il maggior numero di persone, sono dirette all’affermazione di principi di solidarietà e di giustizia, hanno come finalità primaria la valorizzazione delle capacità di tutti. Sono comprese in questa definizione anche le attività che prevedono la parziale o graduale uscita dal sistema economico dominante e le sperimentazioni di stili e modelli completamente nuovi di vita sociale, di
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IN CHE MODO IL LAVORO E' IN RAPPORTO CON LE FINALITA' E GLI SCOPI DELL'ESSERE UMANO?
IN CHE MODO IL LAVORO E' IN RAPPORTO CON LE FINALITA' E GLI SCOPI DELL'ESSERE UMANO?

di Maurizio Di Gregorio

Tutti gli insegnamenti spirituali hanno sempre riconosciuto che qualsiasi uomo non deve lavorare solo per tenersi in vita ma anche per tendere verso la perfezione. Per i bisogni materiali sono necessari vari beni e servizi che non potrebbero esistere senza il lavoro dell’uomo, per perfezionarsi però l’uomo ha bisogno di una attività dotata di senso che magari anche attraverso l’affronto e la soluzione delle difficoltà gli permetta di esprimersi, di”trovarsi”, di realizzare un opera con cui si senta in armonia e che gli permetta anche un rapporto armonico con la società e con tutto l’universo. Per Schumacher i fini del lavoro umano sono: 1) provvedere a fornire i beni necessari ed utili; 2) permettere a ciascuno di utilizzare e di perfezionare i propri doni e talenti, come buoni amministratori di se stessi; 3) Agire al servizio degli altri per liberarci del nostro egocentrismo ...Continua...
MESSAGGIO DALL'UNIVERSO
MESSAGGIO DALL'UNIVERSO


di E.F. Schumacher

Il nostro "ambiente", si potrebbe dire, è l'Universo meno noi stessi. Se oggi sentiamo che non tutto è in ordine con l'ambiente, al punto che richiede la protezione del suo Segretario di Stato, il problema non riguarda l'Universo come tale, ma il nostro impatto su di esso. Questo impatto sembra produrre, troppo spesso, due effetti deleteri: la distruzione della bellezza naturale, che è sufficiente già di per sé, e la distruzione di ciò che viene chiamato "equilibrio ecologico", o la salute e il potere di sostenere la vita della biosfera, che è anche peggio. Qui farò riferimento solo al secondo punto, e cioè ciò che stiamo facendo al pianeta. Chi è "noi" in questo contesto? E' la "gente-in-generale"? E' la popolazione mondiale? Sono tutti e nessuno? No, non sono tutti e nessuno. La grande maggioranza delle persone, anche oggi, vive in un modo che non danneggia seriamente la biosfera o esaurisce il dono delle risorse naturali.
Queste sono le persone che vivono in culture tradizionali. In genere ci riferiamo a loro come ai poveri del mondo, perché conosciamo di più la loro povertà piuttosto che la loro cultura. Molti diventano anche più poveri nel senso che perdono il loro capitale più prezioso, cioè la loro tradizione culturale, in rapida disintegrazione. In alcuni casi uno potrebbe a ben diritto affermare che diventano più poveri mentre diventano un po' più ricchi. Mentre abbandonano i loro stili di vita tradizionali e adottano quelli del moderno occidente, possono anche avere un crescente impatto dannoso sull'ambiente.
Resta il fatto, tuttavia, che non è la gran parte della popolazione povera a mettere a rischio la Navicella Spaziale Pianeta ma il relativamente esiguo numero di ricchi. La minaccia all'ambiente, e in particolare alle risorse e alla biosfera, deriva dallo stile di vita delle società ricche e non da quello dei poveri. Anche nelle società povere troviamo alcuni ricchi e finché questi aderiranno alla loro tradizione culturale fanno poco danno, o non lo arrecano affatto. È solo quando vengono "occidentalizzati" che scaturisce il danno all'ambiente. Ciò dimostra che il problema è alquanto complicato. Non è semplicemente questione di ricchi o poveri – i ricchi fanno danni e i poveri no. È una questione di stili di vita. Un americano povero può fare molti più danni ecologici di un asiatico ricco. Continua...

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VI SPIEGO LA DECRESCITA


Intervista al filosofo francese Latouche: «Una crescita infinita è incompatibile con un mondo finito. In politica di questi temi si può parlare solo a
sinistra, perché sono un po´ sovversivi...»

Luciano De Majo

Serge Latouche, il filosofo della decrescita, è stato l'ospite d'onore di un pomeriggio di riflessione promosso a Firenze dalla Fondazione Balducci, in collaborazione con Comune e Provincia. Francese di Vannes, 66 anni, docente di economia all´Università di Paris XI e presso I'Iedes (Institut d'étude du développement economique et social), Latouche ha parlato di occidentalizzazione e globalizzazione in una delle sontuose sale della Biblioteca comunale fiorentina. Lo abbiamo avvicinato sottoponendogli alcune domande.

Mentre in tutto il mondo, destra e sinistra si confrontano su come accelerare la crescita economica, Lei sostiene la decrescita. Per quale
fondamentale motivo?

«Perché una crescita infinita è incompatibile con un mondo finito. E' una questione di buon senso. La parola decrescita, più che un concetto, è uno slogan, che serve per segnare una rottura con la religione della crescita. Se vogliamo essere rigorosi, allora dovremmo parlare di a-crescita. Dobbiamo diventare ateisti della crescita. Penso che mai come in questo momento sia assolutamente necessario, perché già superiamo di oltre il 30 per cento la capacità di rigenerazione della biosfera».

Ultimamente una parte della sinistra mette in discussione sia il concetto che la prassi della crescita e che, addirittura, qualche ambientalista storico giudica fatuo e datato questo dibattito, almeno da quando gli ambientalisti hanno cercato di introdurre in economia le leggi della termodinamica. Lei che cosa ne pensa?

«E' un dibattito che già si era affacciato negli anni '70, in effetti. Ma i tempi, in quel momento, non erano ancora maturi, perché era ben prima di Chernobyl, prima della mucca pazza, prima di tutte le cose che oggi conosciamo. Dagli anni '70 a oggi la situazione dell'ambiente è peggiorata enormemente. Oggi non si può più rinunciare a fare questo dibattito. E' la ragione per la quale oggi sinceramenteabbiamo molto più successo. Negli anni '70 si parlava, sì, di crescita zero, ma l'intuizione della decrescita ancora non c'era stata».

Qualche anno fa si pensava che con l'avvento della società e dell'economia dell'informazione ci stessimo avviando verso una «dematerializzazione» delle produzioni e dei consumi e quindi, inerzialmente, verso la sostenibilità ambientale. Ciò se, e in quanto, si è avverato, riguarda l'utilizzo di energia e materia per unità di prodotto ma, proprio la crescita dei volumi prodotti vanifica questo sforzo. Lei cosa ne pensa?

«Naturalmente la dematerializzazione è una buona cosa. Anche nella società della decrescita pensiamo di sviluppare i beni immateriali, come i beni relazionali, nelle società occidentali come la nostra dove i servizi rappresentano il 70 per cento del prodotto interno lordo.
Ma questa secondo me è una falsa dematerializzazione perché abbiamo esportato, direttamente o indirettamente, l'impatto materiale del nostro consumo sui paesi e sui popoli del sud del mondo. Oggi la maggior parte dei prodotti vengono realizzati in questi paesi, dove abbiamo delocalizzato gran parte dell'industria pesante importandone i frutti. In più la produzione immateriale come l'elettronica ha necessità di reti che funzionano su basi materiali. Servono infrastrutture pesanti. E per il momento vediamo che la produzione non è certo diminuita».

L'argomento utilizzato dai sostenitori ad oltranza della crescita economica illimitata, magari anche di qualità, è che altrimenti non ci sarebbero risorse da ridistribuire e di ciò ne soffrirebbero i più deboli e i meno abbienti. Lei non crede che sia proprio questo il pericolo?

«La crescita genera indubbiamente diseguaglianze, ma è vero che al medesimo tempo genera anche lavoro e dunque, anche se i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri almeno raccolgono le briciole della ricchezza. Il problema, però, mi pare un altro».

Quale?

«Siamo chiusi in una contraddizione: questa crescita distrugge il pianeta. Quando il pianeta sarà distrutto, non ci sarà proprio più niente da ridistribuire. E' vero che non c'è niente di peggiore di una società basata sulla crescita che non cresce. Qui si tratta non di riformare la società, ma di cambiarla. Serve una rottura. Dobbiamo prendere una direzione totalmente opposta. E' come se fossimo su un treno, qui a Firenze, diretto verso Roma, mentre noi vogliamo andare a Milano: non basta rallentare la velocità, bisogna fermarlo e prenderne uno che va in un'altra direzione. Sull'obiettivo non c'è possibilità di mediare, sui mezzi di realizzarlo invece si possono trovare transizioni e si può discutere. Ma non c'è dubbio che la rottura debba essere radicale».

In Italia mancano pochi giorni alle elezioni politiche. Vede qualcuno degli attori che si propone obiettivi come quelli che sostiene lei?

«Ho fatto la campagna elettorale a Parma per il candidato dei Verdi, che è un bravo medico. Abbiamo fatto un dibattito anche con Grazia Francescato, che è venuta da Roma. Dicono che nel programma della sinistra hanno tentato di introdurre qualcosa: non è facile, ma è già un passo in avanti che si possa parlare di questi argomenti, visto che fino ad oggi era un dibattito quasi proibito».

E a destra si può parlare di questi temi?

«Non lo so, ma penso che tradizionalmente la sovversione è a sinistra, non a destra. E questi, a loro modo, sono temi un po' sovversivi».

Marx sottolineava che in un sistema capitalistico ciò che conta è il valore di scambio, non il valore d'uso. Non si potrebbe utilizzare proprio questo punto di vista per sostenere non tanto la decrescita (la riduzione dei valori di scambio), ma una crescita diversa (l'enfasi su certi valori d'uso cui la sinistra è tradizionalmente legata: la cultura, l'ambiente, ecc.)? In altre parole, non è migliore un mondo dove invece di proporre che l'operaio alla catena di montaggio produca 70 pezzi al posto di 100 (la decrescita), si propone che l'operaio cambi mestiere, si metta a curare giardini pubblici perché i "consumatori" decidono di attribuire valore a questa prospettiva e per questo (non più per i pezzi fuoriusciti dalla catena) sono disposti a pagare un prezzo?

«Io penso che sia necessario produrre meno materiale, meno pesoambientale e produrre diversamente. Ma non si tratta di un'altra crescita. Si tratta di uscire dalla crescita: quello della crescita è un concetto perverso, perché non ha in sé il senso del limite. Per questo dobbiamo pensare che è ragionevole crescere fino a un certo punto, non oltre la soddisfazione dei bisogni. Invece ciò che si vuole è la crescita per la crescita. Anche perché nella nostra società si trova il modo per dire che i bisogni non sono mai soddisfatti, creandone sempre di nuovi».

7 aprile 2006
Fonte: Fonte:www.greenreport.it
Link: http://www.greenreport.it/contenuti/leggi.php?id_cont=1338



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