L'ECONOMIA DELLA CONOSCENZA
di Luca Murru
L’economia ed il modo di produrre hanno subito nel corso degli ultimi trent’anni cambiamenti epocali: la fine del fordismo, la globalizzazione, la smaterializzazione della produzione. Queste tre cifre del capitalismo contemporaneo, hanno un tratto comune di portata rivoluzionaria: il ruolo svolto dalla conoscenza nei processi di produzione.
Ai giorni d’oggi, tranne che per le attività labour intensive, il lavoro è divenuto totalmente lavoro cognitivo e l’esperienza del consumo attribuisce valore al significato o al servizio (immateriali) incorporati al bene materiale, piuttosto che al bene materiale di per sé. Ciò ha determinato un grande cambiamento nell’economia reale, con il passaggio ad una forma di capitalismo cognitivo, in cui la conoscenza come incipit alla discontinuità e all’innovazione è il vero motore della crescita economica.
La conoscenza possiede tre qualità fondamentali, che ne fanno una risorsa peculiare, non assimilabile ad altre: 1) si propaga facilmente, andando oltre il concetto di proprietà; 2) perde valore nel corso del tempo - l’intervallo di tempo con cui generalmente la conoscenza perde valore è molto breve -, specie a causa dei processi imitativi, e questo richiede un investimento consistente e costante per ricreare o rigenerare conoscenza; 3) ha un uso “non rivale” e quindi può essere condivisa (il fatto che stia usando della conoscenza non impedisce ad altri di farlo).
Ora, fino a che concepiamo lo sviluppo fatto di macchinari, capannoni o unità di lavoro create, stiamo pensando ad un concetto di “sviluppo estensivo” - cioè ad uno sviluppo guidato da processi di accumulazione del capitale e del lavoro, sostenibili fino al punto in cui la produzione è massima e la disponibilità di spazi consente ulteriore accumulazione - ma non possiamo immaginare che esso possa essere propagato, rigenerato, condiviso. La conoscenza come “fattore della produzione” è invece incorporata nelle macchine e nella professionalità degli uomini e si identifica con la componente invisibile del prodotto. In questo caso, pensiamo ad uno sviluppo “qualitativo” o “intensivo”, in cui ciò che conta non sono il numero degli occupati o di metri quadri assegnati alle attività produttive, ma il valore aggiunto addizionale a cui quell’occupato o metro quadro di superficie produttiva in più conducono.
La velocità con cui la conoscenza si propaga sta cambiando per effetto di due dei fenomeni soprarichiamati, la globalizzazione e la smaterializzazione.
Per quanto riguarda il primo aspetto, soprattutto nel Mezzogiorno sono oggi presenti economie che puntano alla valorizzazione degli assets locali per lo sviluppo, creano reti relazionali e produttive locali, anche forti e solide, ma queste reti rimangono spesso circoscritte al luogo di partenza. L’economia della conoscenza sta invece diventando un’economia sempre più globale, cioè un’economia che si propaga e si moltiplica su reti lunghe o extra-locali. Al fine di poter sfruttare i benefici prodotti dall’economia della conoscenza, ma direi più correttamente, per non restare ai margini dei nuovi processi dello sviluppo economico, occorre necessariamente allargare le reti locali, proiettandole sui circuiti delle reti globali.
Con riferimento invece alla smaterializzazione della produzione, è accaduto oramai che nel processo produttivo il grosso del valore aggiunto si è trasferito dalla manifattura alle fasi della produzione immateriali (il design, la progettazione, la pubblicità, la moda, il servizio al cliente, la rete commerciale, etc.). In termini di utilità che l’utilizzatore percepisce ed è disposto a pagare, infatti, il valore del prodotto materiale che esce dallo stabilimento è ormai solo una frazione minore – e continuamente decrescente – del prezzo d’acquisto. Per esempio, se pensiamo alla moda, ciò che fa la differenza nella decisione d’acquisto, è soltanto in minima parte la manifattura (ad es. il confezionamento), mentre le componenti decisive sono la qualità dei materiali, il design, la campagna pubblicitaria; cioè tutte quelle componenti che richiedono un’attività collegata al lavoro dell’intelletto. Lo stesso vale per altri innumerevoli prodotti – in cui vi è una notevole parte di contenuto intellettuale - che inseriamo tutti i giorni nel nostro paniere dei consumi.
La propagazione della conoscenza per lo sviluppo richiede la formazione di comunità epistemiche – termine coniato dall’economista Rullani -: cioè comunità che condividono un medesimo sapere ed hanno in comune i linguaggi per accedere e poter utilizzare questo sapere.
Per sua natura, un territorio non è una comunità epistemica, tranne che per quei casi - riferibili ai distretti industriali della Terza Italia -, in cui conoscenze e - detto in termini becattiniani o alla Brusco - saperi diffusi si sono sedimentati e tramandati nel tempo, dando luogo a nucleoli che hanno condiviso conoscenze tacite ed un medesimo modello di organizzazione produttiva e di divisione del lavoro.
Oggi queste comunità epistemiche sono diventate molto complesse e grandi e non coincidono più con le comunità locali. In questa nuova organizzazione mondiale della produzione, un sistema locale ha grosse possibilità di sviluppo non se “contiene” al suo interno un grande patrimonio di conoscenze, ma se appartiene ai circuiti di molte comunità epistemiche. E’ semmai il patrimonio di conoscenze e le risorse distintive della comunità che apportano valore aggiunto alle comunità epistemiche di cui si fa parte, attribuendo maggiore forza competitiva alla singola comunità apportatrice all’interno dell’universo competitivo.
Ma prima ancora di questo occorre che gli attori territoriali (istituzioni, privati e società civile) abbiano una stessa visione delle priorità e del tipo di conoscenza su cui investire e da propagare (cioè se deve essere la conoscenza del turismo piuttosto che dell’industria, quella dell’impresa tessile piuttosto che quella agricola, quella della tecnologia, dell’ambiente, ecc.), al fine di decidere con quale identità, precisa e ben identificabile, la propria comunità intende uscire dal proprio guscio per giocare la partita dello sviluppo vero.
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