AMARE PER VIVERE
di Vittorio Viglienghi
Nel grande ternario dell’energia – Luce, Amore e Potere – l’amore occupa la posizione centrale. Questo ci fa riflettere sul ruolo che l’amore riveste nel processo di manifestazione delle energie della vita.
Si tratta appunto di un ruolo centrale, e questo lo si evince anche dal fatto che tutto ciò che nella vita si esprime come contatto, rapporto, attrazione, unione, magnetismo, relazione, ecc., tutto questo si riconduce in definitiva all’amore.
A qualsiasi livello si manifesti – da quello fisico a quello spirituale – l’amore rappresenta l’aspetto infatti del rapporto, del collegamento. Cioè appunto l’ele-mento mediatore che si trova per forza di cose in posizione centrale rispetto ai due o più termini che entrano in rapporto, e che da esso sono collegati.
Se prendiamo ad esempio l’attrazione, che è una delle più riconoscibili manifestazioni dell’amore (o meglio ancora è una delle modalità con cui esso si esprime), e ne consideriamo i vari campi di applicazione, ci si delinea subito l’enorme vastità, direi quasi l’onnipervadenza delle “competenze” dell’amore.
Infatti l’attrazione si manifesta innanzitutto nella materia, e lo vediamo nella forza di gravità (senza il cui effetto vagheremmo nel vuoto...), nelle attrazioni atomiche, elettromagnetiche e chimiche; poi a livello biologico, ad esempio con l’attrazione verso il cibo e verso il sesso; poi l’attrazione emotiva e sentimentale, poi quella mentale/intellettuale, infine quella artistica, religiosa, mistica, spirituale o autorealizzativa che dir si voglia. Il mondo si muove insomma grazie al potere delle attrazioni!
Attraverso il loro multiforme gioco, l’amore si manifesterà allora di volta in volta come istinto materno, desiderio, innamoramento, idealismo, aspirazione, adorazione ed estasi, ma nello stesso tempo anche come rifiuto, distacco, negazione, aggressività e al limite odio.
Può sembrare paradossale vedere l’odio – che da sempre viene considerato l’antitesi dell’amore – come un aspetto dell’amore stesso. Ma se ci liberiamo per un attimo dall’ottica moralistica e ci sforziamo di adottarne una scientifica, ci sarà facile renderci conto che l’energia che anima la repulsione non può essere altro che la stessa energia d’attrazione, cambiata semplicemente di segno, di verso. Se all’amore fa capo tutto ciò che si manifesta in rapporto, in relazione, è infatti inevitabile che in questo “tutto” convergano sia i rapporti positivi che quelli negativi, sia l’attrazione che la ripulsa, sia l’avvicinamento che la separazione.
Allora, se l’energia dell’amore è quella sottesa ad ogni processo di avvicinamento e di allontanamento, possiamo anche cominciare a definire l’amore stesso come l’elemento motore dell’universo.
Amore = tutto ciò che si muove, o che tende a muoversi.
In quest’ottica diventa più facile riconoscere qual è in realtà il vero opposto dell’amore, che sarà appunto la stasi e l’inerzia, in tutti i loro vari aspetti, ad esempio di immobilismo e di astensione, ma anche di depressione (a livello psicologico) o di disperazione (a livello esistenziale).
Il contrario dell’amore non è cioè un atteggiamento inverso (che non esiste), ma è rappresentato proprio dall’assenza stessa dell’amore! In questo senso il peccato d’omissione è forse il più grave tra le varie categorie di cosiddetti “peccati”. Meglio ardere con un utilizzo sbagliato del fuoco, meglio ardere male che non ardere affatto, come ci ricordano le parole forse più severe dell’Apocalisse: “Oh! fossi tu freddo oppur fervente! Ma poiché sei tiepido, e non fervente né freddo, sto per vomitarti dalla mia bocca...”.
Perché amare vuol dire mettersi in gioco, scendere in campo. Nell’arena della vita, amare vuol dire giocare (anziché stare a guardare), vuol dire partecipare. Poco importa se si sbaglia, proprio perché il male è funzionale al bene, così come l’odio è in ultima analisi funzionale all’amore. La disponibilità stessa al rischio di sbagliare è anzi già un sottile ma sicuro sintomo d’amore.
Amare vuol dire attivarsi, rendersi disponibili quali interpreti della vita in azione. Quindi innanzitutto si esprime in passione, entusiasmo, slancio, ardore e carica, e questo qualunque sia il nostro livello di interazione con la vita. Poi, quando ci avviciniamo ai nostri limiti, l’amore diventa coraggio, iniziativa, rischio, sforzo, conquista e generosità (con se stessi, prima che con gli altri). Questo perché non è facile trovare e mantenersi su quel punto critico, su quel punto di reazione che è collocato all’incrocio delle energie dell’Eros con la scintilla del Logos, quel punto che corrisponde all’intersezione del braccio orizzontale della croce con quello verticale, e che rappresenta anche la sorgente della creatività.
L’amore quindi come momento di creazione, in cui si utilizzano le illimitate energie dell’Eros per la costruzione delle forme adatte ad incarnare progressivamente il piano divino, così come indicato dal modello logoico.
In questo processo l’uomo si costituisce in una camera di combustione vivente per i processi di trasformazione della vita. È il calore dell’amore, il fuoco dell’a-more, che fonde le vecchie forme e le ricicla negli stampi nuovi.
Eccoci così arrivati alla definizione forse più pregnante dell’amore: l’amore come ardore, come fuoco. E il cuore dell’uomo, come fucina della vita.
L’amore arde, consuma, trasforma. È la sua stessa presenza che testimonia l’accesso alle miniere della vita, la disponibilità di quelle inesauribili energie primarie che chiedono solo di essere utilizzate dall’uomo, anzi di essere produttivamente investite. L’amore crea, in quanto è l’unico elemento che libera dalle forme vecchie, e fa accedere a quelle nuove. Se le forme continuamente rinnovantesi sono i gradini della scala della vita, l’amore è quell’energia che ci permette di salirli. È l’energia che ci fa staccare il piede dal gradino inferiore (la forma esaurita) per appoggiarlo su quello superiore. Ci fa lasciare il gradino già salito, ce lo fa lasciare indietro, per calcare quello davanti a noi, quello nuovo.
La luce ci fa vedere il nuovo scalino da salire, ma è solo l’amore che ci fa fare il passo. Distaccandoci dal passato ed attaccandoci al futuro, scandisce in tal modo il ritmo di una progressione infinita. Inerzia, stasi e involuzione possono coesistere con la luce (e allora sono tormentose), ma non con l’amore, che è intrinsecamente dinamico.
E questo ritmo – di continua liberazione per una conquista successiva – è proprio quello che definisce la pulsazione stessa della vita: staccarsi per riprendere, aprirsi per accogliere, riaprirsi per donarsi, in uno scambio continuo che dà la misura di quella che è la nostra partecipazione al processo della vita, a qualsiasi livello esso si manifesti.
L’amore non è allora un processo lineare, ma ritmico, ciclico: la vita pulsa su di un’onda, non su una retta. La sola retta conduce all’asfissia della vita, al suo esaurimento, perché essa dà sì una direzione, ma esclude però il concetto di scambio, di rapporto. Ed è proprio questo il rischio del mentalismo, di restare direzione senza diventare movimento, di restare direzione di vita, e non vita vissuta.
Non è sempre facile distinguere questa pulsazione dell’amore. A volte l’amore potrebbe sembrare infatti anch’esso un processo lineare e continuo, al punto da apparire statico: ma si tratta in questo caso di una falsa immobilità, si tratta dell’immobilità solo apparente della fiamma della candela, che ha talmente intensificato il ritmo della sua combustione da non renderlo più distinguibile.
Il rapporto tra combustibile e comburente, tra cera e aria (o meglio ossigeno), si esaurisce infatti attimo dopo attimo, per rinnovarsi però con la stessa frequenza. Ecco perché la fiamma è viva, nonostante la sua immobilità: è un’immobilità che nasconde la pulsazione di un rapporto che muore e nasce nello stesso momento, e che vive pertanto del suo stesso ritmo. La sede di questo continuo e reiterato rapporto d’amore, di trasformazione, nella candela è lo stoppino, il locus alchemico in cui si ripropone incessantemente la celebrazione delle “nozze” tra l’energia della materia (la cera) e quella dello spirito (l’aria, l’ossigeno).
Amare – per l’uomo – significa allora farsi “stoppino” alle energie della vita che in lui richiedono di essere messe in contatto, in rapporto creativo tra loro. I livelli di questa combustione saranno poi i più vari, come vari possono essere i tipi di cera in una candela, e la natura di questi livelli dipenderà ovviamente dalla qualità della coscienza di ciascun individuo. Ma non è questo quello che conta. Perché infinite sono le modalità d’espressione dell’amore, che trova sempre una via, un canale da attivare. L’importante però è che la candela resti accesa, che questo fondamentale rapporto all’interno dell’uomo non cessi mai di riproporsi e di rinnovarsi. Che la vita non cessi mai di scorrere. Perché qualsiasi interruzione di questo rapporto, qualsiasi attaccamento o possessività alla nostra cera, determina inevitabilmente lo spegnersi della fiamma. Che certamente ogni volta poi si riaccende, ma comunque non spontaneamente, né gratuitamente.
Riappare così quello che si può a ragione definire come il vero e proprio nemico numero uno dell’amore: l’attaccamento. Vale senz’altro la pena di esaminare più a fondo questo ostacolo, ed i suoi meccanismi d’azione, perché riuscire a liberarsene vuol dire poter dare le ali all’amore.
Dell’attaccamento, si può dire che rappresenti una vera e propria aberrazione della dinamica psicoenergetica, rappresenta cioè l’incagliarsi della vita nelle secche del passato, o ancora il “cianuro” della psiche, cioè il suo veleno forse più tossico (il cui meccanismo d’azione è singolarmente analogo sia a livello biochimico che psicochimico). Infatti qualsiasi tipo di attaccamento – per la sua stessa definizione – non fa altro che interrompere il processo di combustione/respirazione e quindi di trasformazione dell’energia. Rappresenta cioè la vera morte.
E al danno enorme di questo atteggiamento si aggiunge poi la “beffa” della diffusissima e paradossale rivendicazione dell’attaccamento, quale al contrario... massima “prova d’amore”, un po’ a tutti i livelli, ma specialmente nella sfera affettiva e relazionale!
A prima vista l’attaccamento sembrerebbe coincidere con, o comunque generare la stasi, l’inerzia, la passività, la sclerosi. È il fattore che genera non tanto l’invecchiamento (che è invece un fenomeno altamente vitale), bensì l’incan-crenimento, l’asfissia. È il sintomo principe di quella generica attitudine alla conservazione, che in realtà è addirittura prodromo della degenerazione e della regressione. Questo perché il cammino della vita – così come quello della coscienza – non va immaginato in orizzontale, ma piuttosto su di un piano inclinato. Per cui, o si avanza, o si scivola all’indietro.
È quindi solo un’illusione quella di poter stare fermi. Perché la vita non ammette spettatori, ma solo protagonisti. Siccome la vita non si ferma, la stasi, l’immobilismo e la conservazione si traducono per forza di cose in regressione. Non esistono zone franche, nell’esistenza (se va bene, al massimo aree di sosta!). Attaccarci a qualcosa significa quindi spegnere il nostro motore e inevitabilmente rallentare e fermarci, ed autoemarginarci così dal flusso della vita che continua a scorrere. Significa cercare di trattenere l’aria che abbiamo inspirato, privandoci così del successivo respiro per la paura di perdere il precedente, peraltro già esaurito, e autocondannandoci in tal modo all’asfissia. E l’asfissia che cos’è, da un punto di vista biochimico, se non proprio la mancanza di ossigenazione dei tessuti, e quindi ancora di combustione? Anche il respiro è perciò un simbolo dell’amore: forse il più delicato, profondo e suggestivo. Amare significa quindi respirare a pieni polmoni su tutti i livelli della nostra esistenza, significa accendere e mantenere accesa dentro di noi la combustione su tutti e quattro i piani che ci costituiscono.
L’accostamento al respiro ci permette a questo punto di ricapitolare quelli che abbiamo visto essere i due grandi aspetti dell’amore. Il primo come forza magnetica di attrazione, l’andare verso, l’attirare, l’entrare in relazione con. Subito dopo, appena realizzato il contatto, l’accendersi della reazione tra i due elementi, l’accensione del fuoco, della combustione, e quindi il successivo irraggiamento. La radianza è infatti ciò che meglio raffigura l’amore, in relazione al suo simbolo per eccellenza, che è la stella. Se è vero che “Dio è un fuoco che consuma”, a maggior ragione anche l’amore sarà un fuoco che consuma. Tutti i fuochi consumano.
L’attrazione dell’amore dovrebbe essere dunque solo funzionale alla consumazione del rapporto. E abbiamo visto che è l’attaccamento ciò che invece può bloccare questo processo, lo può bloccare alla sua prima fase: una volta realizzato il contatto, impedisce cioè il rapporto, l’accendersi della reazione. L’attaccamento non impedisce insomma di portare la legna al camino, ma una volta lì, ve la trattiene così com’è, si oppone all’accensione del fuoco. Blocca cioè il metabolismo a metà strada, limitandolo alla sua prima fase, quella anabolica.
L’amore agito a metà rimane comunque una potente forza motrice, perché mette in moto delle cause che, sia pure indirettamente, si riveleranno comunque funzionali all’evoluzione. Vissuto in questa maniera si priva però di quella che è decisamente la sua funzione più profonda e più grandiosa, che è quella di liberare.
Perché nella sua dimensione piena, l’amore rappresenta infatti il fattore di liberazione per eccellenza. Amore e libertà sono quasi sinonimi, anzi forse è più esatto parlare di amore e liberazione.
Di solito si tende a enfatizzare l’aspetto creativo dell’amore, cioè a considerarne soprattutto la prima fase, quella anabolica, di attrazione. E questo non soltanto per un fattore di condizionamento culturale, ma anche e direi soprattutto come logica conseguenza di quello che è il livello medio dell’identificazione. La prima fase dell’amore è infatti quella più congeniale alle esigenze evolutive della personalità giovane e ancora immatura, che proprio prendendo, ed ammassando, si procura quelle esperienze riciclando le quali potrà poi procedere nella sua progressione.
Ma se ci si distacca un po’ dalla personalità – e si sposta così la prospettiva – è allora facile riconoscere che viceversa l’aspetto più importante e prezioso dell’amore è forse proprio il secondo, quello di “liberazione”. L’amore libera, libera da tutto ciò che è vecchio. L’amore brucia, consuma i vincoli delle abitudini, dei condizionamenti, delle idee fisse, dei desideri, ma anche dei bisogni e al limite anche degli ideali e delle aspirazioni. L’amore libera infatti da tutti i vecchi rapporti, per poterne così allacciare di nuovi! Allora nuovi condizionamenti e abitudini, nuove idee, ideali, aspirazioni, ecc. in un rinnovamento continuo, che trarrà ovviamente il suo significato dalla misura in cui sarà vissuto nella dimensione della qualità (e non della quantità). La “libertà da” ha un senso se è “libertà per”. L’amore libera soprattutto dalle forme vecchie, utilizzandole come combustibile per la creazione di nuove, e, una volta acceso, può infine autoliberarsi anche dall’attaccamento stesso!
Bisognerebbe amare per liberarsi, e per liberare.
Lo stesso amore del Cristo è in essenza un amore di liberazione.
È stato detto che amare è dare. Ma forse è ancora più giusto dire che amare è irradiare. Come nella leggenda del guardiano del faro, a noi è chiesto di donare la nostra luce, non l’olio della nostra lampada. Il primo e più grande dono da fare, a noi e agli altri, è quello di accendere la nostra lampada, è quello di accendere il nostro fuoco interno.
L’amore attivo, l’amore ardente sarà allora quello che, avendo trasceso la dimensione della rinuncia, ci permetterà infine di farci autenticamente interpreti di quello che è il primo, ma anche ultimo insegnamento evangelico: “ama il Prossimo Tuo come Te Stesso”.
Vittorio Viglienghi
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