Correva l'anno 1945, a Nag-Hamadi, Alto Egitto: nell'area dell'antico Chenoboschion di San Pacomio, un campo come gli altri. Stava aspettando il suo aratore - un contadino come gli altri. Fu lui, per caso, a scoprire con l'aratro il tesoro. Un tesoro di parole, avvolto dai secoli, invecchiato da una terra ocra: una biblioteca gnostica in anfore destinate alla maturazione del vino dolce; cinquantatre pergamene scritte in quella lingua copto-sahidica che è ancora prossima agli antichi geroglifici egiziani (copto viene dall'arabo qibt, contrazione della parola greca Aighiptios: Egitto).
Tra quei cinquantatre manoscritti, un Vangelo (Codice II), una "buona novella" che non annuncia nulla, non predice nulla, ma rivela all'uomo ciò che porta dentro di sé da sempre: uno spazio infinito, il medesimo all'interno e all'esterno. Alla brocca umana basterebbe aprirsi...
Questo Vangelo di Tommaso non contiene una storia di Gesù e non vi è in esso neanche un racconto di miracoli. È una collezione di 114 loghia, o "parole nude" attribuite al Maestro, il Dolce, il Vivente. Queste parole sarebbero state raccolte da Didimo Giuda Tommaso: suo fratello?, suo alter ego? (didymos: gemello in greco). Parole che non raccontano, ma che sono altrettanti enigmi, alla maniera dei koan giapponesi, quelle piccole frasi apparentemente prive di senso, ma che, se le si lascia penetrare come grani di sabbia negli ingranaggi della mente ordinaria, possono provocare un arresto... un silenzio... una trasformazione della coscienza.