|
Poche parole. Ci vorrebbero poche parole per descrivere la musica di Ludovico Einaudi. Ma soprattutto ce ne vorrebbero di diverse, leggere, ognuna con un senso e un luogo proprio, al di fuori di quel quotidiano che le costringe. Solo una tale essenzialità potrebbe avvicinarsi ad una forma apparentemente muta come quella strumentale, e soprattutto a composizioni centrate su quella vita che nella sua vastità ci comprende e ci sfugge giorno dopo giorno.
“I giorni”, appunto. Nient’altro che un pianoforte per chi non lo sapesse. E un uomo. Con la sua anima. Come se fosse poco. L’idea nasce da un viaggio in Mali, un giro in auto a Bamako con l’amico musicista Toumani Diabate e una melodia popolare trasmessa alla radio. Ludovico sente quella melodia, ne prende lo spirito, una voce muta, legata alla terra, che si può sentire levarsi dal suolo africano solo una volta che si è sul luogo. Un lamento, un afflato, che è comune a molte sue composizioni da cui si sprigiona un respiro lento, soppesato. E così quella melodia diventa il tema portante che percorre il disco.
Un concetto mistico che passa per le mani di un uomo, per gli spazi silenziosi che vivono tra le note di un pianoforte ed i suoi pensieri. Vani i paragoni con altri pianisti moderni, forse qualche affinità con Michael Nyman, ma per il resto troppo ermetico Brad Mehldau, troppo psicologico Keith Jarrett, troppo solenni i classici del passato: la musica di Ludovico Einaudi è intima e personale, quasi materna nella sua silenziosa dedizione alla vita. Una rivelazione, non solo nel panorama musicale, in cui è ormai pienamente affermato. Titoli come “In un’altra vita”, “Stella del mattino”, “I giorni”, “La nascita delle cose segrete”, “Quel che resta” e “Inizio” affermano un’attenzione dello spirito che è palpabile all’ascolto, come una carezza, come una preghiera. La mano destra e la sinistra si abbracciano in assoluta armonia, non sciupano nulla, non si inseguono e non si possiedono sulla tastiera. La musica di Einaudi ha pochi colori e molte sfumature. È fatta di sottili cicli che portano alla riflessione, alla pausa. L’unico movimento è quello lento dell’anima. Il silenzio la sola richiesta che viene fatta. Non una pretesa, ma una condizione necessaria alla vita. E alla fine del disco ci si accorge che è anche l’unico modo per tornare a vivere la quotidianità dei nostri giorni.
|