Le cose sono unite da legami invisibili, non si può cogliere un fiore senza turbare una stella - Albert Einstein

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Andiamocene in viaggio,
senza muoverci,
per vedere la sera di sempre
con altro sguardo,
per vedere lo sguardo di sempre
 con diversa sera.
Andiamocene in viaggio,
senza muoverci. 

Xavier Villaurrutia
(poeta messicano 1903 - 1950)
LA CASA DAL CUORE ANTICO
<B>LA CASA DAL CUORE ANTICO</b>







Mia

Firenze: caos, traffico, rumore, turisti, inquinamento.
Tutto ormai mi disgusta, mi nausea, mi angoscia.
Non respiro.
Soffoco.
Fuggo via, disperata ....

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IL MIO ORIENTE E' PIENO DI OCCIDENTE
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Casadio Farolfi

"Non è con la ragione che si riesce a varcare i limiti della razionalità." Il battesimo del grande viaggio in India era previsto per il 29 luglio 1979. A Imola era una giornata caldissima, quasi afosa, un anticipo di quel clima che avrebbe accompagnato me e Roberta nelle settimane successive. In realtà, giunti a Bombay fu un monsone della durata ininterrotta di cinque giorni a darci il benvenuto; il tasso di umidità era insopportabile, tale da convincerci a proseguire il nostro viaggio puntando verso il nord del Paese. Fu un lungo itinerario - rigorosamente in treno - attraverso i luoghi turistici dell'India: Agra, Jaipur, Dehli, Benares, Madras, ma anche in tanti minuscoli paesi e villaggi dell'immensa campagna indiana, ben lontani dai falsi splendori delle città caotiche e chiaramente già in piena trasformazione occidentale. Tutto ci apparve come narrato dalle parole di Piero Verni e Folco Quilici, nelle immagini dei
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LE MASCHERE AMERICANE


di Cesare Marino

1. Premessa

Nella sua classica opera sullo sciamanismo l’eminente storico delle religioni Mircea Eliade, soffermandosi sul simbolismo del costume e del tamburo sciamanico, dedica solo un paio di pagine al complesso problema in questione: il motivo della sintetica trattazione, spiega l’autore, è la “rarità” delle maschere, soprattutto nelle aree siberiana e nordasiatica a lui meglio note (Eliade, 1974:189-191). Egli riconosce peraltro un più diffuso uso della maschera nelle pratiche sciamaniche nell’area artica nordamericana, specificamente presso i gruppi inuit (eschimesi) “fortemente influenzati -egli scrive- dalle culture [indiane] americane”. In termini più generali, Eliade afferma poi che, in tutte le culture in cui la maschera sciamanica è in uso, nelle sue diverse forme, essa “attesta manifestamente l’incarnazione di un personaggio mitico (antenato, animale mitico, divinità)” trasformando così il mascherato, non solo agli occhi della comunità, ma anche di se stesso, in un essere sovraumano. Sottolinea, infatti, sempre Eliade che nelle pratiche sciamaniche e medico-magiche

“Si diviene ciò che si mostra. Coloro che portano le maschere sono realmente gli antenati mitici [o come osserviamo nel presente saggio, gli spiriti, le divinità, le forze naturali e animali] figurati da queste maschere” (Ibidem, 203).

La diffusione della maschera nei contesti culturali, religiosi e socio-ricreativi più disparati presso le etnie indigene dell’America del Nord è ampiamente documentata sia nella letteratura archeologica: si pensi ad esempio al ritrovamento delle maschere funerarie e cerimoniali nei siti dei Mound Builder, i costruttori di tumuli nell’area Sud-Est, ai motivi decorativi mascherati delle ceramiche precolombiane del Sud Ovest e delle arti rupestri in diverse aree culturali; sia in quella assai vasta letteratura etnoantropologica, che si è dedicata allo studio dei riti e delle cerimonie mascherate delle culture indiane d’America e, ancora più in generale, agli studi sulle arti una volta dette “primitive”. Una letteratura scientifica specifica riguarda, inoltre, specificamente la maschera e il mascheramento degli indiani nordamericani. Si tratta di una grande mole di articoli, volumi e cataloghi che datano a partire dalla metà dell’Ottocento. Non potendoli citare, neppur sommariamente, rimandiamo qui alle bibliografie dei dodici volumi dell’Handbook of North American Indians, alla monografia pubblicata da Ross Coates nel 1989 e ai fascicoli della rivista “American Indian Art”.

La tradizione delle maschere e del mascheramento delle etnie nord-americane è attestata anche dalla ricca iconografia di artisti-viaggiatori ottocenteschi, come George Catlin, (Truettner, 1979: 76 e 290-291) e dall’altrettanto vasta documentazione etnofotografica che fece loro seguito, come quella raccolta da Edward S. Curtis (1907-1930). Tale documentazione, da oltre cento cinquanta anni, ha accompagnato lo studio e la raccolta sistematica, spesso anche abusiva e violenta nel contesto della politica dell’assimilazione forzata di fine secolo, delle maschere stesse. (Cfr. Handbook of North American Indians; Willoughby, 1931 e Ritzenthaler 1964). Maschere percepite prima come espressioni tangibili di un paganesimo primitivo e “selvaggio”, da sopprimere con atti dimostrativi quali la loro confisca e distruzione, poi come curiosità esotiche da esibire in musei e gallerie d’arte etnica e infine, a partire dalla seconda metà del Novecento sino a oggi, come “pezzi” di notevole pregio e valore artistico e di mercato; ciò nell’ambito di una generale rivalutazione e valorizzazione delle culture indigene dell’America del Nord.

2. Caratteri generali delle maschere nelle aree culturali

Il quadro storico, etnografico e artistico che riguarda le maschere e il mascheramento fra le culture native del Nord America è vario e complesso e riflette, aldilà del popolare stereotipo del “pellerossa a cavallo cacciatore di bisonti” la notevole diversità dei tratti e dei complessi delle aree culturali in cui è stato tradizionalmente suddiviso il Nuovo Mondo.

La produzione di maschere fu particolarmente ricca fra i gruppi inuit della fascia artica (HNAI, vol. 5), tanto per quel che riguarda le maschere sciamaniche e cerimoniali in genere, solitamente lignee e dipinte con pigmentazione prevalentemente bianca, rossa e nera, spesso riccamente decorate con piumaggi ed altri elementi terminali a raggiera, quanto per le caratteristiche maschere in miniatura per le dita (finger mask) conosciute anche col nome di small fan (lett. “ventaglietti”) utilizzate dalle donne sempre in contesti cerimoniali.

Fra le maschere inuit è da segnalare una generale differenza tematica tra le opere dei gruppi Yupik, dai caratteri solitamente astratti, fantastici, e le opere dei gruppi Iniupiaq che riflettono invece più spesso il realismo delle sembianze umane, anche con espressioni grottesche e distorte (Cfr. Chaussonnet, 1994:68-69; Fitzhugh & Crowell, 1988 e Ray 1967). In taluni siti archeologici della zona artica sono state rinvenute anche una serie di maschere-amuleto in osso e steatite, finemente lavorate, che erano probabilmente adoperate nel corso di cerimonie sciamaniche (Chaussonnet, 1994:367). Gli Inuit del Labrador esibiscono poi tuttora maschere ricavate dalla pelliccia d’orso e di foca. Si tratta di raffigurazioni di carattere sia antropomorfo che zoomorfo, indossate in un rito sincretico che si svolge nel giorno dell’Epifania (HNAI, vol. 5:518 e fig. 11).

Maschere lignee dipinte dall’aspetto antropomorfo e dagli elementi stilistici e decorativi d’ispirazione inuit, erano presenti nell’area Subartica occidentale presso gli Ingalik, etnia di lingua athapaska che celebrava la cosiddetta Mask Dance, una suggestiva cerimonia propiziatoria della riproduzione e del benessere degli animali da cui dipendeva la tribù. L’uso di queste maschere di sesso sia maschile sia femminile era di carattere ereditario e il diritto di indossarle veniva tramandato dai genitori ai figli (HNAI, vol. 6:609 e 729-730). Nella Costa nord-occidentale del Pacifico, estremamente ricca e variegata si rivela la tradizione mascherata degli indiani Tlingit, Hàida, Tsimshian, Nootka e Salish (HNAI, vol. 7), presso i quali erano diffuse una straordinaria varietà di singolarissime maschere lignee, riccamente scolpite e dipinte. Le tonalità prevalenti erano quelle del rosso, del nero, del verde e del blu. Si trattava, in genere, di oggetti collegati alla ritualità sciamanica e alle occasioni cerimoniali.

Le maschere erano inoltre utilizzate in suggestive rievocazioni “teatrali” dei miti ancestrali, ed esibite -con funzione distintiva (totemico-araldica) del rango e del clan d’appartenenza- durante i potlatch, le pubbliche elargizioni cerimoniali di doni e di cibo. Si tratta di maschere dai poteri sovrannaturali dalle forme e dai contenuti più disparati, d’ispirazione sia antropomorfa, con espressioni che vanno dal fantastico di un mitico gigante bifronte al realismo di un volto deperito scavato dalla fame, sia zoomorfa, con specifici richiami alla fauna terrestre e marina. Caratteristiche di quest’area culturale sono le larghe transformation mask (presenti comunque anche in forme diverse presso gli Inuit), che permettevano a chi le indossava di muovere tramite dei fili determinati elementi della maschera rendendone ancor più drammatico e realistico l’effetto. Alcuni gruppi, come i Tlingit, possedevano anche maschere di natura utilitaristica, ma pur sempre ritualizzata, come i facciali lignei dei guerrieri e i rispettivi elmetti anch’essi in legno, con incisioni di volti dall’espressione feroce e minacciosa.

Il repertorio delle maschere adoperate dalle culture Pueblo (Hopi, Zuñi, Keres e Tanoan) del Sud Ovest, pur nel suo insieme altrettanto ricco e diversificato, differisce profondamente da quello della Costa nord-occidentale, sia da un punto di vista morfologico, sia dal punto di vista della funzione rituale che era qui fortemente legata alla particolare preoccupazione per il clima arido dell’area desertica e alla cultura del mais che rimandava alla centralità simbolica e cerimoniale dei cicli solari e lunari, degli agenti atmosferici, delle nuvole e della pioggia (HNAI, vol. 9). Tale repertorio, ancor oggi assai vivo, anche se significativamente acculturato, riflette un elaborato calendario cerimoniale e un’altrettanto complessa organizzazione sociale e religiosa di tipo teocratico, incentrato su un pantheon di innumerevoli poteri e spiriti sovrannaturali (presso gli Hopi se ne contano circa trecento) conosciuti collettivamente con il nome di kachina.

Il termine, d’origine sempre hopi, designa sia gli esseri sovrannaturali impersonati da uomini indossanti maschere rappresentative di ciascuno spirito, sia le corrispondenti statuette lignee conservate negli altari delle kiva (stanze cerimoniali semisotterranee usufruite dai membri delle società esclusive maschili) e nelle abitazioni, nonché le statuette (kachina doll nella letteratura anglosassone) che le kachina stesse consegnavano ai bambini prima della loro partenza rituale dai villaggi a metà estate, alla conclusione del ciclo semestrale delle sacre cerimonie mascherate. Al di là della loro centralità e importanza mitopoetica, religiosa e socioeducativa, le maschere kachina offrono da un punto di vista prettamente artistico uno specchio estremamente suggestivo della tradizione mascherata puebloide per la grande varietà di forme, temi, motivi, colori e decorazioni. Le maschere erano di cuoio, di forma generalmente cilindrica lunga o corta, spesso con un collare rotondo alla base, altre erano ricavate anche dal guscio della zucca americana e di altre cucurbitacee, svuotate e dipinte. La funzione fondamentale delle kachina era quella di mantenere l’equilibrio cosmico, e conservare la salute, il benessere e l’armonia dell’individuo, del clan, e dell’intero villaggio.

La tradizione mascherata dei Pueblo ha ispirato anche le maschere dei gruppi linguistici di famiglia athapaska che vennero a insediarsi nel Sud Ovest prima del contatto colombiano, gruppi da cui emersero poi le tribù storiche dei Navajo e degli Apache (HNAI, vol. 10). Presso questi ultimi troviamo diffusa la tradizione dei danzatori mascherati gáán, personificazioni degli spiriti guaritori-protettivi della montagna, chiamati in inglese crown dancer per le singolari “corone” lignee che ne sovrastano le maschere a cappuccio, originariamente in pelle e poi anche di panno. Particolarmente importante era il ruolo che tali maschere esercitavano nelle cerimonie contro le malattie e gli spiriti maligni, e nei riti puberali femminili. I Navajo avevano anch’essi danzatori-guaritori mascherati detti yé-i-bichei, impersonanti divinità taumaturgiche, con maschere tradizionalmente in pelle ed elementi decorativi che contraddistinguevano ciascuna divinità evocata nel corso di elaborati riti notturni (nightway). Come per i Pueblo, l’organizzazione cerimoniale dei Navajo era incentrata su una concezione unitaria, equilibrata e inclusiva di un universo in cui ogni elemento e l’uomo hanno funzioni e ruoli interconnessi che, se alterati, vanno prontamente ristabiliti con lunghe cerimonie cantate (chantway) aventi il compito di curare e di ripristinare l’equilibrio individuale e cosmico con l’ausilio dei danzatori mascherati. In seguito ai fenomeni di acculturazione sono comparse anche presso i gruppi Pueblo e altre etnie del Sud Ovest meridionale (Yaqui, Mayo, Papago, Opata, Tarahumara), maschere d’ispirazione ispano-cattolica, che vengono indossate dagli indiani nel contesto sincretico ritualistico-celebrativo del Natale e della Pasqua. Fra tali forme acculturate, ricordiamo le maschere chiamate matachinas, ciapayekam, fariseos e judíos. Ritornando brevemente alla tradizione mascherata delle kachina, sono da menzionare anche i buffoni rituali o clown mascherati (con il volto dipinto, o con teste di terracotta, da cui il termine di mudhead) dei Pueblo, che ne accompagnano con comportamenti trasgressivi, puniti ritualmente dalle kachina, certe danze e cerimonie.

I buffoni rituali mascherati, con attributi rituali parzialmente diversi da quelli puebloidi, e con poteri wakàn (misteriosi, in lingua lakota), erano presenti anche presso gli indiani delle Praterie (HNAI, vol. 13). Fra i poteri accordati a tali figure, vi era quello di controllare il tempo atmosferico (da cui il loro stretto legame con l’Uccello del Tuono), di ritrovare persone, oggetti o animali smarriti, e di curare i malati. Nell’area culturale delle Praterie, la tradizione dell’uso delle maschere fu storicamente meno complessa e varia che nelle aree prima prese in considerazione e, a parte i clown che si coprivano il volto con maschere a sacco, in pelle o di stoffa con decorazioni buffe e esagerate, essa si incentrava sull’uso di maschere ricavate dalla testa di animali importanti nella vita quotidiana, nella religione e nella mitologia delle genti delle Pianure. Primo fra tutti, il bisonte, la cui testa veniva indossata, completa di corna, dagli appartenenti alle società esclusive maschili che a esso s’ispiravano, nel corso delle suggestive danze di guerra -ricordiamo qui per inciso quella ritratta negli anni 1830 presso i Mandan sia da Karl Bodmer (Goetzman & Altri, 1984:16-17 e 298-299), sia dal già ricordato Catlin- e durante alcune delle fasi danzate della drammatica cerimonia o-kee-pa, sempre dei Mandan. Insieme al bisonte, anche l’orso bruno, o grizzly, forniva la materia prima per le maschere che venivano indossate sia durante le danza propiziatorie alla sua caccia, come la bear dance dei Teton di lingua siouan (Ibidem, 281) sia per le cerimonie dei bear medicine man che, presso i Piedi Neri e altri gruppi, invocavano i poteri curativi dell’orso nei loro riti medico-magici (Ibidem, 188). Un tema, quello dell’orso terapeuta, di diffusione continentale come suggeriscono, ad esempio, il costume completo dello sciamano-orso della Costa nord-occidentale del Pacifico o anche, di nuovo presso i Pueblo, la kachina orso, considerata assai potente nella cura delle malattie, nonché la maschera orso delle Facce False irochesi che verrà presentata ne prossimo paragrafo.

3. Le False Face irochesi

Il superamento dei limiti umani, la trasformazione rituale tramite la maschera delle proprie sembianze in quelle di spiriti-guaritori e l’assunzione dei loro poteri curativi, unitamente alla stretta osservanza degli insegnamenti di un mitico taumaturgo primordiale, erano i precetti guida degli adepti della False Face Society, una confraternita di guaritori un tempo molto attiva presso i gruppi etnici della Lega irochese delle Foreste orientali nordamericane (HNAI, vol. 15). Nel corso delle sue cerimonie, la confraternita faceva uso di singolari maschere in legno raffiguranti, spesso con espressioni esagerate e grottesche, gli spiriti della foresta. L’origine delle Facce False viene fatta risalire, a seconda delle diverse tradizioni orali delle varie etnie della Lega (Mohawk, Oneida, Onondaga, Senèca e Cayuga, con l’aggiunta poi dei Tuscarosa), a due episodi mitici. In uno si racconta che, dopo la Creazione, lo Spirito-che-tutto-pervade, dando prova del suo potere, avesse stretto un patto con il mitico gigante Shagodyowéh, il Padre simbolico delle Facce False, e che a questi avesse affidato il compito di assistere l’umanità nella cura delle malattie. L’altro mito si rifà invece al filone epico del Buon Cacciatore il quale, dopo aver soddisfatto la rituale richiesta di tabacco e di mush (poltiglia a base di farina di mais simile alla zuppa di polenta) degli spiriti vaganti incontrati nella foresta, fosse stato da questi indottrinato nelle arti medico-magiche e, in particolare, nell’uso terapeutico della cenere rovente e nelle proprietà curative delle piante. Il Buon Cacciatore aveva inoltre ricevuto in dono dagli stessi spiriti una maschera rituale, che sarebbe servita da modello a quanti avessero in seguito invocato i loro poteri taumaturgici.

Da qui l’origine della confraternita che da allora ha impersonato, assumendone i poteri, gli spiriti terapeuti delle selve tramite maschere rituali intagliate direttamente su alberi vivi (simbolo della vita e del potere rigenerante del rito) e asportate dal tronco della pianta stessa senza danneggiarla mortalmente. A sottolineare il legame tra mito e realtà, e l’importanza del mondo vegetale nella cura delle malattie, vi è la scelta del tiglio americano (Tilia americana) come legno preferito per la costruzione delle maschere, essendo le sue proprietà antispasmodiche, diuretiche ed emollienti ben note agli erboristi irochesi che ne utilizzavano soprattutto i fiori e la corteccia nella preparazione di infusi e decotti per la cura del raffreddore, della tosse catarrale e di altre malattie dell’apparato respiratorio (Moerman, 1981 e 1986).

La guida cerimoniale delle Facce False era affidata ai membri anziani della confraternita che si fregiavano del titolo di “Nostro difensore”, ossia “Taumaturgo”, appellativo dell’antenato mitico delle Facce False. Solo a costoro era consentito indossarne la caratteristica maschera rossa (simbolo del mattino) o nera (simbolo della sera), a seconda che la stessa fosse stata intagliata durante l’uno o l’altro periodo della giornata. La maschera del “Grande Dottore” (altro appellativo del mitico taumaturgo), si presenta con naso distorto o esageratamente aquilino, e con enormi labbra sporgenti o a imbuto che ne evidenziano i poteri terapeutici nel rito della soffiatura delle ceneri calde sui pazienti. Le orbite oculari della maschera erano solitamente delineate da rondelle di metallo, mentre la capigliatura consisteva in lunghi crini di cavallo che pendevano sciolti arricchendone così l’espressione tipicamente “selvaggia” .

Subordinate all’autorità del Grande Dottore erano le Facce False comuni, un secondo gruppo di maschere dalla morfologia assai varia che rifletteva, a sua volta, la grande diversità fisionomica degli spiriti terapeuti della foresta. L’uso di entrambi i tipi di maschere era riservato ai soli uomini, mentre le donne erano ammesse alla confraternita con mansioni complementari, come l’unzione cerimoniale delle maschere con olio di semi di girasole e la preparazione dei decotti da consumare durante i riti più propriamente curativi. La ritualità medico-religiosa delle Facce False era assai elaborata, e si estrinsecava sia in occasione dell’importante festa di midwinter del Nuovo Anno, sia in primavera e in autunno in corrispondenza degli equinozi, allorquando le Facce False procedevano all’espulsione rituale dai villaggi degli spiriti “patogeni” e alla purificazione cerimoniale delle abitazioni. Completato questo rito, le Facce False passavano alla fase curativa della cerimonia condotta all’interno della longhouse, la casa estesa, fase che si concludeva con il pagamento rituale di tabacco ai guaritori mascherati. Questi, dopo essersi allontanati e aver tolto le loro maschere, rientravano a viso scoperto, per partecipare al banchetto di ringraziamento. Le maschere venivano solitamente conservate a faccia in giù, in un fagotto di pelle o di stoffa insieme al sonaglio rituale del guaritore e a sacchetti di tabacco che era al contempo la mush, il cibo preferito delle Facce False.

Altra società di medicina che aveva il compito di coadiuvare le Facce False e di mantenere ordine nel corso della purificazione del villaggio era quella delle Husk Face (lett. “Facce di Paglia”), o Bushy Head (lett. “Teste Cespugliose”) chiamate così per le maschere di brattee di mais intrecciate che ne contraddistinguevano la fisionomia. Come le Facce False, anche le Husk Face, che si richiamavano esplicitamente alla tradizione agricola irochese, possedevano facoltà diagnostiche e poteri terpeutici, e celebravano particolari riti medico-magici che erano per lo più complementari a quelli delle Facce False.
Pare certo che confraternite di medicina simili a quelle irochesi fossero presenti, anche in epoca protostorica, sia presso gruppi etnici di lingua algonchina delle Foreste orientali, come i Chippewa, dove però il sodalizio mascherato era stato in seguito rimpiazzato in epoca storica dalla Midèwiwin, una società di medicina a carattere esoterico-iniziatico che non adoperava le maschere, sia fra gli Shawnee e i Delaware. In merito a questi ultimi, lo storico Clifton Weslager ricordava che i loro esseri sovrannaturali annoveravano anche

“L’Essere Maschera, chiamato M’sing un nome che è stato introdotto con il significato di Faccia Solida Vivente [...] rappresentato da una grande maschera intagliata nel legno [...] dipinta di rosso e nero con dei fiori per gli occhi e la bocca. La maschera, in cui si pensava che egli abitasse, era tenuta in custodia da una delle famiglie indiane” (1994:61).

Come già accennato, le maschere furono adoperate già in epoca preistorica nell’area del Sud Est (HNAI, vol. 14). Fra le tradizioni più recenti ricordiamo quella delle booger masks, le “maschere spauracchio” indossate dai Cherokee cristianizzati in occasione di danze socio-ricreative che fanno da schermo, neppure tropo velato, a una sottesa tensione catartica. Si tratta di maschere lignee rappresentanti uomini bianchi e di colore, considerati alla stregua di “invasori”, che hanno un comportamento negativo, trasgressivo dell’ordine che è invece impersonato, per antitesi, dagli indiani, anch’essi tipizzati da maschere.

La tradizione cherokeese della “danza degli spauracchi”, col suo forte sincretismo che risponde alle sollecitazioni delle spinte acculturanti che hanno modificato nel profondo la società degli indiani d’America, si inserisce a pieno titolo nel contesto più ampio delle tradizionali maschere sciamaniche e cerimoniali dei nativi americani di cui si è detto nel presente saggio, maschere oggetto, ormai da diversi anni, di una riscoperta da parte degli stessi nativi, non solo sotto il profilo prettamente artistico, ma anche sotto quello più propriamente cerimoniale, e finanche esoterico. Parallelamente, in taluni casi, gli indiani richiedono oggi la repatriation, la restituzione formale da parte di musei e istituzioni accademiche americani ed europei delle maschere sottratte alle loro comunità, in modo illecito o forzato, nel diverso contesto storico e politico dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, allorquando i popoli nativi americani, unitamente alle loro tradizioni mascherate, furono considerati dall’etnocentrismo bianco, una “razza in via d’estinzione”.

Bibliografia citata
“American Indian Art”. Rivista periodica attiva dal 1968.
Chaussonnet Valérie (a cura di), Crossroads Alaska. Native Cultures of Alaska and Siberia, Smithsonian Institution, Washington 1994.
Coates Ross (a cura di), Gods among Us. American Indian Masks, San Diego State University, San Diego (Cal.) 1989.
Curtis Edward, The North American Indian, 20 voll., Johnson Reprint Corporation, New York 1976. I ed. 1907-1930.
Eliade Mircea, Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, trad. it., Edizioni mediterranee, Roma 1974. Ed. orig. 1955.
Fitzhugh William W. & Crowell Aron, Crossroads of Continents. Cultures of Siberia and Alaska, Smithsonian Institution, Washington 1988.
Goetzman William & Altri, Karl Bodmer’s America, University of Nebraska Press, Lincoln (Neb.) 1984.
Handbook of North American Indians (HNAI), Smithsonian Institution, U.S. Government Printing Office. A cura di William C. Sturtevant
Vol. 4, History of Indian-White Relations, 1988. A cura di Wilcomb E. Washburn -
Vol. 5, Arctic, 1984. A cura di David Damas -
Vol. 6, Subarctic, 1981. A cura di June Helm -
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Vol. 8, California, 1978. A cura di Robert F. Heizer -
Vol. 9, Southwest, 1979. A cura di Alfonso Ortiz -
Vol. 10, Southwest, 1983. A cura di Alfonso Ortiz -
Vol. 11, Great Basin, 1986. A cura di Warren L. d’Azevedo -
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“Indian Masks”. Rivista a cura di Charles C. Willoughby, New York 1931.
Moerman Daniel E., Geraniums for the Iroquois. A Field Guide to American Indian Medicinal Plants, Reference Publications, Algonac (Mic.) 1981.
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Ray Dorothy Jean, Eskimo Masks. Art & Ceremony, University of Washington Press, Seattle (Was.) 1967.
Ritzenthaler Robert Eugene, Masks of the North American Indians, Milwaukee 1964.
Truettner William H., The Natural Man Observed. A Study of Catlin’s Indian Gallery, Smithsonian Institution, Washington 1979.
Weslager Clifton, Erbe e medicine magiche degli indiani del Nordamerica, trad. it., Erre Emme, Roma. 1994. Ed. orig. 1973.

Fonre: International Center for Studies in Anthropology of Art

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