Le cose sono unite da legami invisibili, non si può cogliere un fiore senza turbare una stella - Albert Einstein

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L'ECOLOGIA IN PRATICA
UNO STILE DI VITA NATURALE
PER SE' E PER IL PIANETA
L'ECOLOGIA IN PRATICA
Sono la natura
sono la terra.
i miei occhi sono il cielo,
le mie membra gli alberi.
Sono la roccia,
la profondità dell'acqua,
non sono qui per dominare
la Natura.
Io stesso sono la Natura.

Indiani Hopi

Questa terra é sacra
<b>Questa terra é sacra</b>





Come potete comperare
o vendere il cielo,
il calore della terra?
l'idea per noi é strana.
Se non possediamo
la freschezza dell'aria,
lo scintillio dell'acqua.
Come possiamo comperarli?
Continua...
ONDE DI CRESCITA INTERIORE
ONDE DI CRESCITA INTERIORE La crisi ecologica - ovvero il principale problema di Gaia - non è l’inquinamento, i rifiuti tossici, il buco nell’ozono o qualcosa del genere. Il principale problema di Gaia è che un numero non sufficiente di esseri umani si è sviluppato ai livelli di coscienza postconvenzionali, planetari e globali in cui sarebbero spinti automaticamente alla cura per il globale comune. E gli esseri umani sviluppano questi livelli postconvenzionali, non imparando la teoria dei sistemi, ma passando attraverso almeno una mezza dozzina delle principali trasformazioni interiori, che vanno dall’egocentrico all’etnocentrico al mondocentrico, punto in cui e non prima, possono risvegliarsi a una profonda e autentica cura per Gaia. La prima cura per la crisi ecologica non consiste nell’imparare che Gaia è la Rete della Vita, per quanto vero ciò sia, ma nel promuovere queste numerose e ardue onde di crescita interiore, nessuna delle quali viene indicata dalla maggior parte di questi approcci del nuovo paradigma.
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UN'ALTRA ITALIA E' POSSIBILE
UN'ALTRA ITALIA E' POSSIBILE 1 L’Italia vive l’anomalia di un nuovo Medioevo. Più che in altri paesi, è visibile in Italia l’emergenza ecologica, il degrado sociale e la crisi di fondamentali valori etici; permangono aree vaste di ignoranza, incapacità, ingiustizia. Meno facilmente che altri paesi, l’Italia quindi può affrontare la conversione ecologica delle attività economiche, il risanamento ambientale e morale del paese, la partecipazione diretta delle persone alla attività sociale ed una effettiva realizzazione di una sana cultura dei diritti e dei doveri che dovrebbero regolare ed ispirare la vita sociale collettiva. 2 Sia in Europa che nel resto del pianeta, vi è una tripla crisi :a) economica e finanziaria (causata da un modello di crescita superato) b) ambientale conseguente, c) socio-culturale. Tre grandi crisi che non trovano più risposte adeguate dal sistema della politica: non dai partiti socialdemocratici in crisi dappertutto e neppure dall’egoismo sociale e dall’indifferenza ambientale dei vari partiti conservatori. Solo un modello sociale e produttivo eco-orientato ed eco-sostenibile, che all’idea di una crescita senza limiti sostituisca un idea di sobrietà, che non escluda anche l’utilità di avere aree di decrescita virtuosa e felice, può essere in grado di affrontare le difficoltà del presente. ...Continua...
IL BENESSERE ANIMALE E' BENESSERE UMANO
IL BENESSERE ANIMALE E' BENESSERE UMANO di Maneka Gandhi

Mangiare carne è una delle maggiori cause della distruzione ambientale. Ogni specie non solo ha il diritto di vivere, ma la sua vita è essenziale per il benessere dell’umanità. Ciò che chiamiamo sviluppo, cioè la sterile città nella quale portiamo i nostri cani al guinzaglio, non è vita. Ci abituiamo così velocemente al malessere, alla tensione, alle carestie e alle alluvioni che pensiamo che i pezzi di carta che teniamo in tasca possano sostituire un corpo sano e una mente gioiosa. Scegliamo di non sapere che, praticamente tutte le nostre malattie sono causate dalla mutilazione e dall’uccisione di animali: dai 70.000 acri di foresta pluviale del Sudamerica abbattuti ogni giorno – che in gran parte servono per far pascolare il bestiame – fino al virus Ebola, proveniente dalle scimmie strappate dal loro habitat naturale in Africa allo scopo di fare esperimenti. Abbiamo ottenuto più cibo uccidendo i lombrichi con le nostre sostanze chimiche o abbiamo ottenuto più malattie? Abbiamo ottenuto una salute vigorosa allevando forzatamente bestiame per il latte e la carne, o abbiamo piuttosto ottenuto emissioni di gas metano che hanno contribuito enormemente all’effetto serra, mettendo in pericolo la vita del pianeta? Continua...

LA RIVOLUZIONE AMBIENTALE
LA RIVOLUZIONE AMBIENTALE

di Lester Brown

Per creare una economia sostenibile bisognerà sostenere una rivoluzione ambientale, come è avvenuto per quella agricola e industriale. Alla fine del libro Piccolo è bello, Schumacher parla di una società che violenta la natura e danneggia gli esseri umani e, da quando queste parole sono state scritte, diciotto anni fa, abbiamo potuto vedere con maggiore evidenza i modi con i quali la nostra società agisce proprio in quella direzione.Mi trovavo all’aeroporto di Dulles e presi una copia del US News and World Report, che conteneva un editoriale di David Gergen, un alto funzionario dell’Ufficio Stampa di Reagan alla Casa Bianca. L’articolo descriveva quello che stava accadendo oggi alla società americana e l’autore affermava che, in un certo senso, abbiamo perso la strada. Continua...

RISPETTA LA (TUA) NATURA
<b>RISPETTA LA (TUA) NATURA </b> Michele Vignodelli

Il nostro corpo e la nostra mente sono meraviglie naturali in pericolo, da difendere come le foreste, i fiumi, il mare e le montagne. Sono continuamente aggrediti dal sistema tecnologico ed economico che ci governa, proprio come il resto del mondo naturale.
Non potremo mai rispettare e vivere veramente la suprema bellezza e armonia della natura esterna se non cominciamo da noi stessi. Eppure esiste una spaventosa ignoranza sulla nostra natura interna, che fa pensare a una congiura del silenzio.
Negli ultimi anni sono emerse abbondanti prove dell’esistenza di
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RICORDO DI IVAN ILLICH
RICORDO DI IVAN ILLICH


di Giannozzo Pucci *

Il primo libro di Illich, pubblicato alla fine degli anni '60, riguarda appunto la Chiesa nel processo di trasformazione della società moderna (The Church, change and development).
Il secondo, del 1970, intitolato "Celebration of Awareness (Celebrazione della consapevolezza": un appello alla rivoluzione istituzionale), è contro le certezze delle istituzioni che imprigionano l'immaginazione e rendono insensibile il cuore.
Poi, nel 1971, esce "Descolarizzare la società", che è stato al centro del dibattito pedagogico internazionale con la tesi che la scuola produce la paralisi dell'apprendimento e danneggia i ragazzi, educandoli a diventare meri funzionari della macchina sociale moderna. Convinto che il sistema educativo occidentale fosse al collasso sotto il peso della burocrazia, dei dati e del culto del professionalismo, combatteva i diplomi, i certificati, le lauree,
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LA VENDETTA DI GAIA
LA VENDETTA DI GAIA

di James Lovelock

La vendetta di Gaia : assediati dall'inquinamento e dalle crescenti anomalie del clima, siamo al punto di non ritorno. Lo sostiene uno scienziato di fama mondiale.
Per millenni abbiamo vissuto con la strategia del parassita, ai danni dell'organismo vivente che ci ospita. Ora, assediati dall'inquinamento e dalle crescenti anomalie del clima, siamo al punto di non ritorno. Lo sostiene uno scienziato di fama mondiale.
Il parassita e' un essere che vive a spese di un altro organismo. Se ne nutre, cresce, si riproduce e prospera. Eppure, la sua non e' una strategia lungimirante. Le energie dell'organismo ospite diminuiscono giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto. Finche' un giorno accade l'inevitabile: l'organismo ospite si avvia a una fine certa. E il parassita, senza risorse, e' destinato a scomparire. Questa immagine e' la perfetta metafora della storia della specie umana. A dimostrarlo sono i fatti. Migliaia di anni di occupazione del pianeta hanno provocato distruzione degli habitat, estinzione di molte specie, emissioni record di gas serra in atmosfera e nubi di polveri sottili nell'emisfero nord e sulle metropoli. Un'aggressione prolungata alla quale la Terra ora reagisce innescando una lunga serie di disastri naturali, quali inondazioni e uragani, sempre piu' numerosi e violenti, ed eventi climatici estremi, come estati torride e punte di freddo anomalo. Il pianeta che abitiamo non ha piu' anticorpi per difendersi. E allora attacca.
Lo sostiene a gran voce uno scienziato autorevole e indipendente, James Lovelock, nel suo nuovo libro, The revenge of Gaia (La vendetta di Gaia) in uscita il 2 febbraio in Gran Bretagna! . Il nostro mondo, afferma, potrebbe avere superato il punto d! i non ritorno: la soglia oltre la quale non possiamo fare piu' nulla per evitare che, entro la fine del secolo, i cambiamenti causati dall'attivita' umana distruggano la nostra civilta' Continua....
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CONVERSIONE ECOLOGICA E CONFLITTO: SI INIZIA A PENSARCI



di Jacopo Simonetta 

CONVERSIONE ECOLOGICA E CONFLITTO: SI INIZIA A PENSARCI
Recentemente, l’Università di Pisa ha avviato un interessante progetto di ricerca, chiamato “Ecoesione”.  In sintesi, si tratta di capire quali impatti sociali negativi potrebbero venire da effettive politiche di contrasto al cambiamento climatico per poterli prevenire o, perlomeno, mitigare e gestire, evitando l’esplodere della violenza.
Trovo la cosa molto interessante perché, anche se i pareri su quali provvedimenti siano necessari spesso divergono, tutti concordano che siano indispensabili ed urgenti cambiamenti drastici e rapidi a tutti i livelli ed in tutti i settori.  Ed ogni volta che qualcosa cambia, qualcuno ci guadagna ed altri ci perdono, sempre.  E’ quindi normale che i perdenti si oppongano con tutti i mezzi a loro disposizione e non è neppure detto che abbiano tutti i torti.

Per esempio, i disordini fomentati dai “Gilets Jaunes” hanno finito con l’essere strumentalizzati dall’estrema destra, ma non erano nati per questo e, neppure, sono stati una banale rivolta contro le politiche di contrasto al GW, come qualcuno ha detto.   La rivolta aveva infatti radici profonde nella discriminazione molto francese fra Parigi e “provincia”, nell’impoverimento della piccola borghesia e dei lavoratori, nel venir meno di molti servizi in vaste zone della Francia rurale; per non parlare dell’atteggiamento spesso spocchioso di Macron.   Insomma, il rincaro del prezzo del gasolio è stata la classica “goccia che fa traboccare il vaso” per una massa di persone che già vive in condizioni disagiate e che per le proprie necessità (lavoro, acquisti, scuola, ecc.) dipende interamente da vecchie macchine diesel che non si può permettere di cambiare.

Il progetto dell’Unipi si prefigge esattamente questo: evitare errori di questo genere.
Partecipare come “stakeholder” alla riunione di avvio ufficiale del progetto mi ha suggerito tre domande che, credo, sarebbe utile discutere proprio approfittando dello staff d’alto profilo schierato per questo progetto.  Le tre domande che pongo sono queste:  1 – Crescita o non crescita?  2 – Quanta decrescita e per chi? 3 – Superare il capitalismo?
In rapporto ad ognuna avanzerò alcune osservazioni in tre puntate per ridurre il tedio degli eventuali lettori.   Si tratta di cose ben note, ma che in molte discussioni si tende a dimenticare.

1 – Crescita o decrescita?

Konrad Lorenz fece notare che l’uomo odierno è tenuto in scacco da una serie di atteggiamenti mentali profondissimamente radicati in ognuno di noi, forse addirittura a livello genetico.  Atteggiamenti che in passato hanno favorito il successo della nostra specie, ma che nel contesto attuale la stanno invece portando diritta verso il disastro.  Fra questi, dedica un capitolo all’ Amore per la Crescita.  Niente ci da gioia come vedere crescere ciò che si ama: la propria famiglia, il gregge, i libri della biblioteca, il conto in banca, i fiori del giardino e qualunque altra cosa cui teniamo.
In relazione alla crescita economica, a questa atavica passione si aggiunge l’oggettiva esperienza dei vantaggi indiscutibili materiali che questa porta con sé.
Per questo, di solito, i promotori di una qualunque variante di “transizione ecologica” parlano apertamente di “crescita verde” o, perlomeno, lasciano intendere che sia possibile salvare la Biosfera ed il clima, pur rilanciando quella crescita economica che dovrebbe risolvere tutti i nostri problemi.   Siamo sicuri che sia possibile e, se si, che sia compatibile con lo scopo prefissato di fermare la catastrofe ambientale planetaria?  L’argomento ha una valenza politica di primo livello ed è infatti molto dibattuto, spesso trascurando alcuni fattori particolarmente sgradevoli, ancorché noti.

  1. Limiti delle energie rinnovabili. Troppo spesso si da per scontato che le energie rinnovabili possano sostituire quelle fossili semplicemente mediante sufficienti investimenti, ma non è così.
    Innanzitutto, per essere usata, l’energia deve essere prima concentrata cosa di cui, nel caso delle fossili, si sono incaricati i movimenti tettonici nel corso di milioni di anni. Nel caso delle rinnovabili dobbiamo invece farlo noi mediante opportuni mezzi tecnici che ci sono, ma che occorre pagare e che, per funzionare, dissipano parte dell’energia captata.  Non possono quindi avere lo stesso rendimento termodinamico delle fossili.
    In secondo luogo, sono intermittenti e necessitano quindi di opportuni sistemi di accumulo ed una forte ridondanza di tutte le strutture.  Le tecnologie disponibili sono molte ed efficaci, ma tutte comportano un aumento dei costi e dei materiali impiegati, una perdita di efficienza ed un aumento degli impatti ambientali.
    Anche le energie rinnovabili hanno infatti degli impatti ambientali sia diretti (per esempio la distruzione di intere valli, fiumi e torrenti mediante le dighe), sia indiretti per l’estrazione e la lavorazione dei materiali con cui vengono costruite e manutenzionate.  Oggi sarebbe impossibile realizzare e mantenere efficienti impianti fotovoltaici, dighe e pale eoliche senza disporre di grandi quantità di energia fossile a buon mercato.  In futuro potrebbe forse cambiare, ma si entra nel campo della fantascienza.

    Infine, oggi le energie fossili coprono circa l’85% dei consumi globali, il legname (la cui rinnovabilità è molto parziale) un altro 4% ed il nucleare il 6%.   Complessivamente, le rinnovabili vere coprono meno del 5% dei consumi attuali (il fotovoltaico lo 0,04%). Non è quindi pensabile una vera transizione energetica senza una molto sostanziale riduzione dei consumi finali, mentre questi continuano ad aumentare.  Infatti, ed è il punto più critico di tutti, finora le nuove fonti energetiche non hanno sostituito quote di energia fossile, ma si sono aggiunte a quelle, comunque in crescita.  Ma l’impatto complessivo, non solo climatico, dell’umanità sul Pianeta dipende prima di tutto proprio dalla quantità complessiva di energia che dissipiamo.

  2. Limiti del disaccoppiamento. Secondo la vulgata, la chiave per mantenere, anzi migliorare le condizioni di vita dell’umanità e, contemporaneamente, ridurre i consumi di energia è il progresso tecnologico che assicurerà un crescente disaccoppiamento.  Vale a dire una maggiore produzione di beni e servizi a fronte di minori consumi.
    Una approfondita metaricerca ha però dimostrato che si tratta in buona misura di leggende metropolitane.  In realtà, i casi documentati di effettivo disaccoppiamento sono molto pochi e molto parziali.  Al massimo, abbiamo un lieve disaccoppiamento relativo, vale a dire che i consumi crescono meno della produzione, ma crescono comunque e noi li dobbiamo ridurre.
    Si potrà obbiettare che,  anche se un vero disaccoppiamento non si è ancora visto, l’efficienza della produzione è comunque aumentata e continua ad aumentare, permettendo di contenere la crescita dei consumi, tanto di energia quanto di materiali (la cosiddetta “dematerializzazione”).   Ma anche questo non è vero, se non forse, in qualche caso.  Il punto qui è il cosiddetto “effetto rebound” (alias “Paradosso di Jevons”).  L’osservazione empirica dei dati storici, dall’introduzione del motore Watt nel 1782 ad oggi, dimostra che l’effetto è anzi contrario: l’aumento dell’efficienza riduce i costi di produzione e di uso di beni e servizi, così da renderli disponibili per masse crescenti di persone.  Il risultato finale è quindi un aumento e non di una riduzione dei consumi di energia e materiali.  Questo operando in un’economia di mercato; cambiando il contesto politico ed economico le cose potrebbero anche andare diversamente e questo ci rimanda alla terza domanda.
    Comunque, anche al di la delle esperienze finora maturate, ci sono vincoli fisici invalicabili che ci assicurano che un vero disaccoppiamento non è fattibile, perlomeno non su di una scala neppure lontanamente prossima a quella necessaria. L’unico modo per ridurre i consumi in misura adeguata è quindi ridurre considerevolmente la produzione di beni e servizi, una faccenda molto spinosa da proporre ed ancor più da gestire anche perché accadrà comunque, anzi sta già accadendo in buona parte del mondo, malgrado gli sforzi dei governi.

  3. Limiti dell’economia circolare. Il secondo pilastro su cui si regge il sogno di una “green economy” è la chiusura dei cicli produttivi mediante il completo riciclaggio dei rifiuti.  E’ certamente vero che in questo campo ci sono ampi margini di miglioramento (a condizione però di ristrutturare radicalmente il mercato e la fiscalità), ma un riciclaggio del 100% non è possibile neppure in via del tutto teorica.   Ad ogni ciclo una parte del materiale va inevitabilmente perduto, quali che siano le tecnologie usate ed i finanziamenti disponibili.   Perciò un’economia circolare è necessariamente un’economia che utilizza una quantità costantemente decrescente di materiale, oppure che preleva una quantità crescente di materie prime in natura.
    Naturalmente non tutti sono d’accordo e molti sostengono che invece è possibile perché il progresso tecnologico consente di ridurre progressivamente la quantità di materiali usati per ogni singolo oggetto.  Il che è vero, ma il vantaggio si perde se si fabbricano più oggetti per più persone.   Non solo: la riduzione della quantità di materiale incorporato in ogni singolo oggetto ha talvolta effetti deleteri sulle possibilità di riciclare i medesimi.
    Insomma, si potrebbe fare molto per ridurre l’estrazione di minerali, biomassa, ecc. dall’ambiente, ma anche da questo punto di vista, per tornare veramente entro dei limiti di effettiva sostenibilità, bisognerebbe pianificare una consistente contrazione della produzione, con tutto ciò che ne consegue.

  4. Limiti non energetici all’economia. I sostenitori del Green New Deal si focalizzano soprattutto sull’energia.  Giustamente perché senza energia non si fa nulla, ma esistono anche altri limiti all’economia.  Due di cui si parla comunque assai sono la disponibilità di materie prime e la capacità di smaltire i rifiuti, ma ne esiste un altro di cui non si parla praticamente mai: l’integrità funzionale della Biosfera che ci assicura quelli che riduttivamente chiamiamo “servizi ecosistemici”.  Sono questi, infatti, che assicurano non solo la disponibilità delle risorse rinnovabili, l’assorbimento della CO2, la trasformazione dei rifiuti e molto altro, ma soprattutto consentono che sulla Terra si mantengano condizioni chimiche e fisiche compatibili con la vita biologica.  Per essere chiari, il collasso della Biosfera (forse già iniziato e certamente non lontano) comporterebbe (o comporterà?) anche l’estinzione della nostra specie o, perlomeno, la scomparsa definitiva dei presupposti per l’esistenza di una qualunque civiltà.
    Civiltà senza petrolio ce ne sono infatti state migliaia; invece civiltà senza acqua, suolo, foreste, biodiversità, ecc. non ce ne sono mai state, né mai ce ne saranno.  Anzi, sono molte quelle che si sono estinte proprio perché hanno eccessivamente degradato la Biosfera nel loro territorio.  La differenza è che finora si è trattato di catastrofi locali o regionali, mentre oggi qualcosa del genere sta avvenendo a livello planetario.

In definitiva, direi che la risposta alla prima domanda è che pianificare una robusta contrazione dell’economia sia una condizioni necessarie affinché un progetto di transizione sia realistico.   Ciò condurrebbe sicuramente al conflitto, solo che ogni altra possibile strategia è destinata al fallimento e dunque ad un conflitto ancor più grave.  Il che ci porta alla prossima domanda: Quanta decrescita e per chi?   Ne parleremo la prossima settimana.
 

QUANTA DECRESCITA W PWE CHI?

Seconda puntata dedicata al progetto “Ecoesione” dell’Università di Pisa su conversione ecologica e conflitto. Nella prima puntata abbiamo visto alcune delle ragioni per cui un’ulteriore crescita economica non solo è estremamente improbabile, ma sarebbe anche in netto contrasto con l’imperativo di ridurre il più rapidamente possibile l’impatto dell’umanità sul Pianeta. Sarebbe anche prodromo di maggiore conflittualità sociale poiché, salvo opportuni provvedimenti, con ogni probabilità contribuirebbe ad accrescere ulteriormente le differenze di reddito.
Ma se la crescita ha il potere di mitigare i conflitti sociali, la decrescita ha l’effetto opposto, specialmente se mentre i più decrescono, alcuni continuano a crescere in ricchezza e potere.  Non è certo l’unico fattore in gioco, la struttura demografica è anche più importante nel favorire la violenza, ma resta comunque una delle forzanti principali di cui occuparsi.
Ogni società elabora i propri criteri per decidere cosa è giusto e cosa no, ma sempre vi è un limite oltre il quale la classe dirigente cessa di essere considerata una guida e comincia ad essere vista come un parassita. Di qui la seconda domanda che pongo: Quanta decrescita e per chi?

La decrescita è un concetto alieno, tanto che la parola stessa è un neologismo di assai recente invenzione e gli stessi suoi fautori si affrettano a specificare che, sostanzialmente, si tratta di fare a meno del superfluo, guadagnando però in termini di qualità della vita grazie al venir meno del consumismo compulsivo.   Che il consumismo sia una strategia basata sulla cronicizzazione di una stato di frustrazione e solitudine non ho dubbi, penso, ma la questione di quanto sia necessario decrescere per evitare il collasso planetario è parecchio più complicata.   Vediamo alcuni dei punti che credo dovrebbero essere tenuti in conto.

  1. Quanto bisogna decrescere? Una serie di indicatori concordano nel suggerire che  l’umanità nel suo complesso abbia superato la capacità di carico del pianeta nei primi anni ’70. Vale a dire che sono circa 50 anni che l’effetto combinato di popolazione, consumi e tecnologia ha superato la “capacità di carico” del Pianeta, avviandone un degrado progressivamente accelerato.  Moltissime specie, soprattutto di grande fauna, erano già state eliminate dai nostri antenati fin dal tardo paleolitico, ma fino ai primi anni ’70 questo non aveva messo in forse il permanere sulla Terra di condizioni chimico-fisiche compatibili con la vita.  A far data da allora invece si.
    Di qui l’imperativo, ossessivamente ed inutilmente ribadito ad ogni occasione, di riportare gli impatti complessivi, far cui le famigerate “emissioni climalteranti”, entro dei limiti di sicurezza.  Ma se  cinquant’anni or sono questo sarebbe stato sufficiente, oggi non lo è più perché nel frattempo biosfera, atmosfera e idrosfera sono state pesantemente modificate cosicché, per consentire al pianeta di recuperare, sarebbe oggi necessario riportare l’impatto antropico ben al di sotto di quella soglia.
    Tanto per  farsi un’idea di larga massima possiamo comunque darci l’obbiettivo di riportare i nostri consumi globali a quelli di 50 anni or sono.  Non dovrebbe essere molto traumatico, visto che chi c’era non ha un cattivo ricordo di allora, per non parlare dei miliardi di persone che vivono ben al di sotto dello standard europeo degli anni ’60 e che, quindi, avrebbero un buon margine di miglioramento.   Ma non è così semplice.
    Un calcolo preciso sarebbe molto complicato ed aleatorio, ma per farsi un’idea molto approssimativa basta pensare che, da allora, la popolazione è più che raddoppiata, così come i consumi medi pro capite.  Ne consegue che, per tornare all’impatto antropico di allora occorrerebbe ridurre ad un quarto i consumi medi attuali.  Significherebbe un livello di consumo analogo a quello attuale della Moldavia, per avere un’idea molto approssimativa.  Una cosa che non sarebbe certo indolore, soprattutto per noi euro-occidentali, e che ci porta direttamente nel cuore dei possibili conflitti sociali ed internazionali legati a politiche (per ora ipotetiche) di sufficiente riduzione dei consumi.

  2. Chi deve decrescere fra classi. Una così drastica riduzione dei consumi medi può avere effetti estremamente diversi a seconda di come vengono ripartiti fra le classi sociali, dal momento che anche nei paesi più poveri ci sono ricchi e ricchissimi.  Anzi, è proprio in questi stati che le disparità di reddito raggiungono l’apice (ad oggi, la UE ha uno dei livelli di sperequazione minori al mondo).
    Secondo la vulgata, per risolvere la situazione sarebbe sufficiente tassare pesantemente i super-redditi e super patrimoni per ridistribuire il denaro fra i poveri,  ma ancora una volta non è così semplice.
    Innanzitutto, se ci fidiamo di Piketty che parla dell’Europa, per quanto spropositati, i super redditi sono troppo pochi per fornire un gettito fiscale adeguato ai bisogni.  Bisognerebbe quindi estendere le super-tasse ad un buon 10-20% della popolazione, vale a dire all’intera classe dirigente.  La probabilità che ciò avvenga è estremamente ridotta, malgrado questo porterebbe indubbi vantaggi proprio all’élite in termini di recupero di credibilità e di legittimità.
    Fra l’altro, proprio i patrimoni ed i redditi maggiori sono i più difficili da accertare e “catturare”, come dimostrato dal fatto che un miliardario come Trump non solo può impunemente eludere le tasse di un paese assai severo con gli evasori, ma addirittura diventarne il capo.
    Comunque, anche immaginando una “Robin Tax” efficace, non è affatto detto che la ridistribuzione del reddito verso il basso sia compatibile con lo scopo dichiarato di ridurre gli impatti antropici.   E’ infatti certamente vero che i ricchi consumano e inquinano più dei poveri, ma stimare quanto non è così semplice come Oxfam vorrebbe farci credere con la sua pubblicazione che è perfettamente condivisibile sul piano politico, ma che ha ben poco valore su quello scientifico.
    Anzi, uno dei meccanismi automatici che portano alla crescita spropositata dei massimi patrimoni, mentre quelli relativamente modesti rendono poco, è proprio il fatto che i grandissimi capitalisti possono devolvere in consumi solo una piccola parte dei loro redditi, cosicché ne reinvestono una percentuale tanto maggiore, quanto più grande è il patrimonio accumulato.  Un classico anello a retroazione positiva; uno dei tanti annidati nel cuore del capitalismo.
    Inoltre, dal punto di vista ambientale, il risultato sarebbe diverso a seconda di molti fattori.  Per esempio, se super-tassassimo alcune persone ed imprese europee per distribuire il ricavato fornendo trasporti pubblici gratuiti, oppure assegnando “ecoincentivi” per l’acquisto di auto elettriche, non otterremmo il medesimo risultato.  Nel primo caso i consumi presumibilmente  diminuirebbero, mentre nel secondo aumenterebbero.
    Comunque, al di là delle questioni di dettaglio, rimane il fatto che ridurre di molto il potere d’acquisto di poche persone per aumentare di poco quello di molte probabilmente manterrebbe i consumi costanti.  Anzi c’ è il rischio che li incrementi e, con essi, probabilmente, anche la natalità.  Per dirla con un aforisma, la sostenibilità si persegue impoverendo i ricchi, non arricchendo i poveri.  Un fatto che in molto subodorano e che cementa quindi una singolare alleanza proprio fra i ricchi (che non vogliono rinunciare i loro privilegi) e molti poveri e medi (che non vogliono rinunciare al sogno di arricchirsi o, perlomeno, di mantenere lo status quo).

  3. Chi deve decrescere fra stati. E’ perfettamente vero che noi occidentali, chi più chi meno, abbiamo sfruttato ignobilmente altri popoli e paesi per lungo tempo.  Anche se la palma della maggiore potenza coloniale mondiale sta passando in mano cinese, una parte consistente del nostro residuo benessere deriva ancora da accordi commerciali asimmetrici, a noi favorevoli.  Sono quindi giustificati le rivendicazioni di altri paesi e il desiderio di una parte degli europei di porre fine a questa situazione, ma difficilmente si tenta di analizzare a fondo le implicazioni di una simile operazione.
    Noi occidentali siamo stati, complessivamente, i più ricchi e potenti del mondo per talmente tanto tempo da credere che questo sia un fatto naturale ed irreversibile.  Non è stato così in molti periodi della storia e non è scritto da nessuna parte che debba restare così per sempre.  Anzi, abbiamo ben visto che nel giro di appena 20 anni abbiamo perso parecchie posizioni.    Anche questo è un fattore di tensione e di possibile conflitto, stavolta su di un piano internazionale, ma c’è un problema anche maggiore: una rapida decrescita comporterebbe una riduzione del peso politico, economico e militare dello stato, in un contesto di crescente conflittualità non solo con paesi e governi tradizionalmente ostili, ma anche fra paesi che vantano decenni di ottimi rapporti.
    Si possono pensare dei sistemi per gestire la questione riducendo i rischi, ma occorre che il problema sia tenuto ben presente  e analizzato senza nascondersi il fatto che molti degli stati nostri vicini sono destinati, comunque, ad attraversare fasi di violenza estrema e che non è assolutamente detto che questo non ci coinvolga, in un modo o nell’altro.  Come non è assolutamente detto che le potenze maggiori decidano di non approfittare della situazione.  In particolare mi preoccupano sia gli USA che la Cina che, impegnate nello scontro per la supremazia mondiale, stanno facendo di tutto per colonizzare l’Europa ancor più di quanto non abbiano già fatto.

  4. Impatti su settori irrinunciabili. Quando si parla di abbandono del petrolio, si parla di energia per uso domestico, di agricoltura, trasporti ed altro, ma vi sono interi settori vitali di cui non si parla mai.  Qui mi limiterò a citarne uno solo: la sanità.  Oggi, soprattutto in Europa ma non solo, praticamente chiunque ha accesso ad un livello di cure che un re od un miliardario di soli 50 anni fa neppure si immaginava e questa è considerata una delle conquiste principali ed irrinunciabili del progresso.  Solo che tutto ciò di cui vive il sistema sanitario (medicinali, ospedali, materiali di tutti i generi, protesi ecc.) proviene direttamente o indirettamente dal petrolio e non ci sono alternative possibili, neppure in prospettiva.
    In un ottica di rapida e radicale decabonizzazione, sarebbero anche altri i settori socialmente vitali ad andare in forte crisi.  Diciamo che l’intero sistema di welfare (Sanità, sussidi, pensioni, ecc.), già fortemente sotto stress, diventerebbe molto difficile da mantenere.
    Si potrebbe pensare di mantenere una modesta estrazione petrolifera per soddisfare questi e gli altri bisogni per i quali non vi sono alternative, ma non sarebbe possibile; perlomeno non in un’economia di mercato perché, venendo meno le economie di scala, i costi diventerebbero impossibili.

  5. Impatti demografici. Senza qui indugiare su di un tema così complesso, ignorare o trattare sulla base di comodi luoghi comuni uno dei fattori principali in gioco, anzi IL fattore principale in gioco, è come pensare di cucinare una torta usando zucchero e lievito, ma senza farina.  Vale quindi la pena di ricordare che la sovrappopolazione non è un fatto assoluto, bensì relativo in quanto dipende certamente dal numero di persone, ma anche dalla struttura della popolazione, dalle condizioni economiche e dalla capacità di carico del territorio in questione.  Il ultima analisi, è il rapporto fra impatti antropici complessivi ed ambiente che determina lo stato di sovrappopolamento.
    Tendenzialmente, la crescita economica, anche se “verde”, favorisce la natalità, riduce la mortalità e favorisce l’immigrazione.  Il contrario di solito avviene quando la crescita finisce, ma gli effetti reali sono difficili da prevedere perché dipendono anche da molti altri fattori politici, sociali e culturali.
    Resta comunque il fatto che, di solito, la crescita demografica segue quella economica e tende ad erodere i vantaggi raggiunti, generando situazioni di stress sociale particolarmente gravi se associati ad un vistoso “bubbone giovanile”.  Masse di giovani senza reali sbocchi professionali sono infatti un viatico sicuro per un elevato grado di turbolenza e di conflittualità, finanche estrema come già stiamo vedendo in molti dei paesi maggiormente prolifici, alcuni molto vicini a noi
    Comunque, modifiche sensibili nelle condizioni di vita hanno sempre conseguenze demografiche, anche se si riescono ad evitare scoppi di violenza.   Per fare un esempio pratico, l’aspettativa di vita in Italia è oggi di circa 83 anni, mentre nei citati anni ’70 era di 72; quella odierna della Moldavia è di 76.  Ciò non significa che qui accadrebbe lo stesso che là, oppure che si torni indietro ne tempo, ma la correlazione fra consumi e aspettativa di vita è stretta e ben motivata.  Certo, se volendo essere cinici, una riduzione della vita media sarebbe un considerevole vantaggio economico sia per i governi che per i giovani, ma politicamente la questione è improponibile, tanto è vero che si evita accuratamente anche solo di farvi cenno.

Uno dei libri più straordinari mai scritti è “I Limiti della Crescita” che dopo 50 anni non solo non è invecchiato affatto, ma anzi è più di attualità che mai.   Decenni di verifiche e controlli sui dati reali hanno infatti confermato oltre ogni possibile dubbio l’esattezza dell’impostazione di quel lavoro e che quello che oramai stiamo vivendo sono le prime fasi di un collasso dell’intera civiltà industriale mondiale.   Questo significa che una brutale decrescita non è più una scelta, ma un fatto ineluttabile e nasconderselo non ci aiuterà a sopravvivere.
La buona notizia è però che, anche se oramai è troppo tardi per evitare il “Picco di Tutto”, siamo ancora in tempo a mitigare i danni del “rientro” entro quei limiti che abbiamo cercato di esorcizzare negandoli, con l’unico risultato di sfracellarci contro di essi alla massima velocità possibile.
Ma, si obbietta spesso, se si ammette che il collasso sia oramai invevitabile (fatto sul quale molti peraltro dissentono energicamente), a che pro darsi da fare?  E’ una strana obbiezione perché è proprio quando la nave affonda che c’è il massimo di lavoro, non quando la crocera procede tranquilla.
Di questo parleremo nel terzo ed ultimo episodio.

SUPERARE IL CAPITALISMO?
Terza puntata dedicata alla conversione ecologica ed al conflitto. Due settimane fa, a seguito di un interessante incontro nell’ambito del progetto  “Ecoesione” dell’Università di Pisa su conversione ecologica e conflitto, mi posi tre domande: 1 – Crescita o non crescita?  2 – Quanta decrescita e per chi? 3 – Superare il capitalismo?
Delle prima due abbiamo parlato nei precedenti post, qui vorrei accennare ad alcune questioni relative al un punto fondamentale: il capitalismo è compatibile con l’auspicata conversione ecologica?
La questione è cruciale perché coloro che si adoperano per tale conversione devono far pressione sul sistema attuale per modificarne la rotta, oppure cercare di sostituirlo con un’altro sistema?  E se questa fosse l’opzione, con quale sistema?

Mercato o non mercato?

Tutte le proposte inerenti una qualche variante di “green Economy” danno per scontato di operare all’interno di un’economia di mercato. Sia pure con qualche aggiustamento, si pensa comunque di restare saldamente in un sistema capitalista, con tutto il relativo apparato legale, istituzionale e di costume.  Siamo sicuri che sia possibile una vera transizione ecologica senza sbarazzarsi del capitalismo o, magari, trasformarlo in qualcosa di molto diverso?

  1. Struttura del capitalismo.   Il capitalismo è un sistema economico unico nella storia e, alla resa dei conti, si è dimostrato di gran lunga il più efficiente nello sfruttare le opportunità di crescita che offriva un “mondo vuoto” (sensu H. Daly).  Non solo ha infatti permesso la creazione di immense fortune private (anche altri sistemi lo hanno fatto), ma ha anche distribuito il massimo storico di benessere materiale e di libertà personale ai cittadini degli stati che lo hanno adottato per primi.  Si è anche dimostrato inattaccabile grazie alla sua capacità camaleontica di adattarsi ai più diversi contesti, pur restando saldamente sé stesso.  Anzi, assorbendo ed utilizzando a proprio vantaggio anche le idee, i concetti e le invenzioni nate per contrastarlo.
    Proprio questo lo rende così terribilmente distruttivo. Qui non possiamo scendere in dettagli su cui mi riprometto di tornare in futuro, ma è un fatto che il sistema capitalista è strutturato su una ridondanza di retroazioni positive senza freni interni.  Al contrario ha molti strumenti (ad es. la tecnologia e la finanza) per contrastare gli effetti frenanti derivanti dagli impatti negativi sulle risorse, l’ambiente ecc.
    Ne consegue che un sistema capitalista può fare solo due cose: crescere o collassare, senza possibili vie di mezzo.
    Ovvio che se quella che si cerca è una “crescita verde” il capitalismo è quello che ci vuole, ma è lecito dubitare che in tal modo si possa davvero ridurre l’impatto umano sul Pianeta.  Del resto, i deleteri effetti del “green washing” sono sotto gli occhi di tutti.  Oramai, in nome e per conto della “economia verde” e dello “sviluppo sostenibile” si promulgano leggi ai limiti del criminale, come il “Testo Unico Forestale” del governo Gentiloni, e si finanziamo speculazioni a dir poco spregiudicate.
  2. Effetti macroeconomici del superfluo. Il consumismo è alla base del disastro ecologico globale e si basa sulla vendita di oggetti perlopiù inutili, talvolta perfino dannosi, spesso progettati per rompersi presto e non essere riparabili.   Verissimo, ma la maggior parte delle persone oggi lavorano proprio alla produzione e commercializzazione di beni e servizi inutili. L’esperienza dei blocchi dovuti alla pandemia di Covid-19 ci ha dato una dimostrazione plateale di come sia stato sufficiente rallentare per alcuni mesi la commercializzazione mondiale di generi non indispensabili per scatenare una crisi economica ancora più grave di quella, catastrofica, del 2008, lasciando disoccupate centinaia di milioni di persone nel mondo.  Circa trenta milioni solo in Europa.  Alla fine, nel mondo, il Covid avrà ammazzato più gente di miseria che di polmonite.
    Insomma, è verissimo che una vita sobria e laboriosa può essere di molta più soddisfazione di una vita passata a strascicare i piedi nei centri commerciali, ma le conseguenze per coloro che lavorano per far arrivare quella roba in quelle vetrine sarebbero devastanti.  Certo, una vera transizione ecologica aprirebbe altri sbocchi professionali, magari più interessanti, ma rimane da stabilire quale sarebbe il saldo finale e come gestire la fase di passaggio che facilmente provocherebbe gravi conseguenze per molta gente e, di conseguenza, una netta opposizione, se non una vera insurrezione.
  3. Effetti finanziari. I più seri tra i fautori del Green New Deal indicano anche quali sarebbero le fonti di finanziamento.   In buona sostanza, sarebbero tre: – aumento delle tasse per i redditi più elevati, – diversa destinazione di spese già in atto, – varie tipologie di debito pubblico e privato.
    Come già detto, la tassazione requisitoria dei super-redditi avrebbe indubbi vantaggi non tanto in termini di gettito fiscale, quanto in termini di recupero di credibilità e di autorevolezza della classe dirigente, oggi totalmente delegittimata. Resta da vedere se sia possibile attuare questa misura.
    La ridistribuzione di spese e contributi potrebbe fare molto per sostenere la transizione, ma presenta dei rischi a seconda di quali finanziamenti si andassero a ridurre/eliminare.  In particolare, le due categorie più gettonate sono le spese militari e le sovvenzioni alle industrie petrolchimiche.   Delle prime si è già fatto cenno nella puntata precedente.  Quanto alle sovvenzioni alle fossili, sono effettivamente un assurdo, ma il loro taglio potrebbe provocare il collasso di un comparto industriale che è già in affanno e che rimarrà comunque essenziale ancora a lungo.  Fra l’altro, anche per realizzare la transizione energetica, visto che quasi tutto ciò che serve per essa viene direttamente o indirettamente dalle fossili.
    Per quanto riguarda il debito comunque confezionato, la speranza è che i vantaggi derivanti dalla transizione consentano di ripagarlo.   Il punto è che ciò sarebbe teoricamente possibile in un contesto di crescita economica, mentre in un contesto di decrescita ciò sarebbe comunque impossibile, con grave rischio di collasso del sistema finanziario e monetario.   Inoltre, aumentare la massa monetaria in un contesto di contrazione od anche di stagnazione economica finirebbe con lo scatenare fenomeni inflattivi devastanti come si è già visto tante volte .
    Insomma, se la transizione avvenisse in un contesto di decrescita sufficientemente rapida da salvare la Biosfera, bisognerebbe pianificare l’annullamento di gran parte del debito, il che significa la scomparsa del denaro e dalla finanza attuali e, quindi, la loro sostituzione.  Con che?  Non mi risulta che questo sia un punto in discussione.
    Al contrario, se il GND fosse capace di rilanciare la crescita economica, come molti affermano, l’intera operazione fallirebbe con ogni probabilità lo scopo.  Sappiamo bene da oltre 50 anni che per evitare il collasso globale occorre contrarre e non accrescere l’economia e la popolazione.
  4. Tensioni e conflitti internazionali. Un altro punto fondamentale che si tende a trascurare è che non esistono solo le tensioni sociali interne ai vari stati (di cui le versioni migliori del GND almeno in parte si occupano), ma anche tensioni internazionali, spesso complicate, talvolta violente, quasi ovunque in peggioramento.   Gli stati che decidessero di fare da battistrada per una transizione del tipo di quella prospettata ridurrebbero il loro peso economico e politico nel mondo, specie se tagliassero drasticamente le spese militari, come generalmente auspicato dai sostenitori del GND.   Una cosa estremamente pericolosa, visto che la maggior parte dei paesi vanta almeno un vicino ostile, ma anche considerata la necessità di mantenere aperti canali commerciali globali ancora per un lungo periodo di tempo.   La probabilità che altri paesi approfittino del ridimensionamento di alcuni, optando per una politica di accaparramento degli spazi economici e politici lasciati da altri, sarebbero molto elevate.  Per non dire una certezza.
    Non dimentichiamo poi che moltissimi paesi anche molto vicini a noi andranno quasi sicuramente incontro a ulteriori crisi politiche e sociali, tipo “primavere”.   Finora queste ondate di violenza collettiva si sono sfogate all’interno dei confini nazionali, ma comunque con un forte impatto su altri paesi a causa della fuga di massa dalle zone più colpite.   Ma non è detto che in futuro continui ad essere così e, se anche fosse, dovremo fronteggiare flussi di gente in fuga di ordini di grandezza superiori a quelli visti finora.
    Comunque, le prospettive sono abbastanza tetre per tutti.   Per i paesi che vivono di esportazione di energia fossile (OPEC e Russia prima di tutti), una vera e diffusa conversione energetica sarebbe un disastro totale e non è detto che, potendo, non ricorrerebbero alle armi per salvarsi.   Per le economie fortemente industrializzate, come Cina, USA e UE, una crisi dei trasporti internazionali, anche parziale, potrebbe facilmente innescare un completo collasso economico.  Le devastanti conseguenze dei vari “lockdown” da Covid sono state un piccolo assaggio di quello che potrebbe facilmente accadere.   Infine, molti dei paesi più poveri tirano avanti in buona parte grazie a programmi internazionali e rimesse di emigrati che diventerebbero molto più aleatori in un modo in cui le economie si contraggono.  Molti fra questi ultimi sono anche quelli demograficamente più instabili e maggiormente a rischio di violenza anche estrema.
  5. Rientro nei limiti. La crescita economica comporta sempre un aumento dei consumi e, generalmente, anche della popolazione (contrariamente alla vulgata).   In altre parole, aumenta l’impatto umano sul pianeta, mentre è imperativo ridurlo il più rapidamente possibile perché la situazione è già ora disperata.
  6. Tanto per farsi un’idea, buona parte delle calotte glaciali è già in collasso e si stanno consolidando una serie di retroazioni che aumenteranno il tenore di CO2 e di metano in atmosfera, qualunque cosa faremo noi con le nostre tecnologie.  Ancora peggio, i biomi non esistono più ed oggi si parla di Antromi.  Dei 21 identificati, soltanto 3 sono considerati “wildlands”: deserti, tundra e resti di foreste primarie equatoriali, per un totale di poco più del 20% delle terre emerse (Antartide esclusa).  Comunque, anche questi territori sono soggetti a gravissimi fenomeni di degrado come incendi, scioglimento del permafrost, ecc.
    Tutto il resto, circa l’80% delle terre emerse, è occupato da ecosistemi totalmente artificiali, come città e campagne, o pesantemente modificati, come la quasi totalità delle foreste e delle praterie superstiti.   In mare va pure peggio.
    Il risultato è che in appena 50 anni abbiamo perso oltre il 70% della fauna del mondo, mentre nello stesso periodo la popolazione umana è raddoppiata, raggiungendo una densità media mondiale di 55 persone per Kmq (sempre Antartide esclusa).  Vale a dire che abbiamo un quadrato di poco più di cento passi per lato a testa. Se consideriamo però la sola superficie agricola, il quadrato diventa di soli 40 passi per lato (meno di 2000 mq).  Oramai, il poco che resta di vita selvatica sopravvive stentatamente negli interstizi del nostro “formicaio umano globale”.

 

Considerazioni finali

Il petrolio abbondante, a buon mercato e di eccellente qualità è stato ciò che ha consentito al capitalismo di realizzare la più fantastica crescita economica di sempre e quella crescita è ciò che ha reso compatibili, anzi sinergici, il capitalismo e la democrazia.
La crescita è finita e non tornerà.  E con la fine della crescita è finita questa sinergia: di qui il risorgere ed il diffondersi di partiti e movimenti estremisti, mentre il capitalismo in agonia cerca di sopravvivere adottando, gradualmente, metodi di manipolazione, controllo e repressione sempre più simili a quelli cari ai regimi totalitari.  Tutto ciò che la crescita ha creato, senza di essa non potrà funzionare.
D’altronde, la decrescita non è una scelta, è una conseguenza di leggi fisiche e biologiche ineludibili. Questo significa che non solo le nostre abitudini ed il nostro benessere, ma anche buona parte di ciò che pensiamo, delle nostre certezze identitarie, fino ai nostri bastioni etici cadrà in rovina e da quelle rovine dovremo ricostruire un sistema di pensiero che ci possa sostenere in una realtà che già ci terrorizza, anche se ancora non la riusciamo ad immaginare.

D’altronde, per quanto duro, il declino è anche la strada migliore perché qualunque ulteriore crescita economica comporterebbe un ancor maggiore incremento dell’ingiustizia e della distruzione di ciò che resta della Biosfera.
In una qualche misura, possiamo però scegliere come declinare.   Un vecchio detto afferma che per avere le buone risposte occorre porre le buone domande.  Per esempio: “Come possiamo mantenere il nostro standard di vita?”  è una domanda stupida perché sappiamo bene che la risposta è: “non possiamo”.  Però ci sono altre domande su qui vale la pena di riflettere.   Per esempio: “Come possiamo contribuire a salvare la biosfera?” Oppure:  “Possiamo seppellire il capitalismo salvando le libertà individuali?”  O ancora: “E’ possibile una società decentemente giusta, anche se terribilmente povera?”
Ce ne sono molte altre, il punto è decidere quali sono le questioni che ci interessano davvero.

A chiosa, ricordo che tutte queste sono considerazioni strettamente personali che molti, specie fra coloro che sono importanti, non condividono, anzi negano o deridono.   Sono il primo ad augurarmi di avere torto, ma avessi anche solo in parte ragione?

Jacopo Simonetta
 Ottobre 2020

 

 

 




scritto da: Edoardo il 19/11/2022 alle 13:22
Articolo molto interessante che analizza in modo esaustivo le variabili della nostra civiltà occidentale; pur tuttavia, per costruire un algoritmo efficace nella gestione del Bene comune, occorre aggiornare, prima di tutto, la personalità umana e i desideri che muovono l'Umanità. Come dire che i problemi stanno a monte, nei propositi e non nella valle degli effetti. Dunque, le decisioni dei potenti non cambieranno senza una presa di coscienza delle masse dei Valori basilari della Vita. Solo allora i sistemi globali, dall'economico finanziario, alla politica, si adegueranno al livello di umanità dell'Umanità. Per ora i sistemi globali rispecchiano le strategie e tattiche di mammiferi evoluti, ma non certo di umani coscientizzati.

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