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Info
rilegatura: brossura
formato: 15 x 21cm.
pagine: 288
ISBN: 978-88-6118-007-9
Editore: FioriGialli edizioni
Anno di pubblicazione: settembre 2007
Euro: 18.00
Approfondimenti
Introduzione
Indice
La festa è finita
Economia Buddista
Un lavoro malato non fa una società sana
Comunicato stampa
Notizie sull'autore
Cenni biografici
Piccolo é Bello
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STAMPA
Un lavoro malato non fa una società sana << torna indietro
 “Dante, quando compose la sua visione dell’inferno, avrebbe benissimo potuto includere l’insensata e ripetitiva noia del lavoro nella linea di assemblaggio di una fabbrica. Distrugge l’iniziativa e fa marcire i cervelli, ma per milioni di lavoratori britannici si tratta della principale occupazione per la maggior parte della loro vita”.

La cosa sorprendente è che questa dichiarazione riportata nel The Times, analogamente a innumerevoli altre dichiarazioni precedenti, non ha suscitato alcun interesse: non ci sono state proteste infuocate o discussioni animate; nessuna reazione. Le forti e terribili parole, “visione di inferno”, “noia insensata e ripetitiva”, “distruzione dell’iniziativa e cervelli marci”, “milioni di lavoratori britannici, impegnati per la maggior parte della loro vita”, non hanno attirato alcuna critica e nemmeno sono passate come dichiarazioni errate, esagerate, irresponsabili o esagerazioni isteriche o propaganda sovversiva. Niente di tutto ciò: la gente le ha lette, ha sospirato, annuito e, suppongo, è andata avanti.

Nemmeno gli ecologisti, i conservazionisti, i pessimisti e gli allarmisti si interessano di questo problema. Se qualcuno avesse asserito che alcune disposizioni create dall’uomo hanno distrutto l’iniziativa e fatto marcire i cervelli di milioni di uccelli, o foche, o animali selvaggi nelle riserve di caccia in Africa, una tale affermazione sarebbe stata respinta o considerata come una sfida impegnativa. Se qualcuno avesse affermato che a “marcire” non erano le menti o le anime o i cervelli di milioni di lavoratori britannici bensì i loro corpi, forse ci sarebbe stato un interesse maggiore. In fin dei conti esistono norme di sicurezza, ispettorati, citazioni per danni, e così via. Tutte le amministrazioni societarie conoscono i propri obblighi tesi ad evitare incidenti o le condizioni fisiche che mettono a rischio la salute dei lavoratori. Ma i cervelli, le menti e le anime dei lavoratori sono cose diverse.

Un rapporto semi-ufficiale, pubblicato dallo Stationery Office di Sua Maestà, porta il titolo “Pollution: Nuisance or Nemesis” (“Inquinamento: seccatura o nemesi”). Questo rapporto non contiene alcun riferimento alle disposizioni create dall’uomo che distruggono l’iniziativa e fanno marcire i cervelli di milioni di lavoratori e il lettore nemmeno si aspetterebbe di trovare tali riferimenti. Si aspetta e trova discussioni dotte su “Alcuni agenti inquinanti pericolosi”, come il DDT e i PCB, metalli, fosfati, nitrati, anidride solforosa, ecc. e gli ammonimenti sui pericoli moderni (tumori, malformazioni e mutazioni). È tutto. Potrebbe essere completamente d’accordo con l’autore quando, per concludere, afferma che “Speriamo in una società che venga educata ed informata…così che l’inquinamento possa tornare sotto controllo e la popolazione umana e il suo consumo di risorse naturali siano indirizzati verso un equilibrio permanente e sostenibile. Se ciò non accadesse, prima o poi, e alcuni ritengono che ci sia rimasto poco tempo, il declino della civiltà non sarà una questione di fantascienza. Sarà l’esperienza dei nostri figli e nipoti”.

Ma a mala pena potrebbe sovvenire, al lettore medio, l’idea che la distruzione dell’iniziativa e l’immarcimento dei cervelli di milioni di lavoratori rappresentino il peggiore inquinamento possibile, il pericolo più grande, ed il pericolo più grande per qualcosa che deve esser fatto per evitare il “declino della civiltà”.

Se si pensa che può essere troppo ricercato occuparsi dell’immarcimento dei cervelli sotto un titolo relativo all’inquinamento, non sarà forse irragionevole ritenere che un simile argomento venga trattato sotto il titolo “Risorse naturali: i perni della sopravvivenza”, che è il titolo di un compendio anch’esso pubblicato dallo Stationery Office di Sua Maestà. La risorsa più importante è naturalmente l’iniziativa, l’immaginazione e la forza della mente dell’uomo stesso. Tutti lo sappiamo e siamo pronti a dare contributi sostanziosi a ciò che chiamiamo istruzione. Pertanto, se il problema è la sopravvivenza, potremmo aspettarci di trovare un qualche tipo di discussione relativa alla conservazione e, se possibile, allo sviluppo della risorsa naturale più preziosa, cioè il cervello umano. Tuttavia, tali aspettative non vengono soddisfatte. “Perni della sopravvivenza” tratta di tutti i fattori naturali (minerali, energia, acqua, natura e così via) ma non accenna affatto a tutte quelle risorse immateriali quali l’iniziativa, l’intelligenza e il potere della mente.

Analogamente, potrei fare riferimento al rapporto internazionale su I limiti della crescita preparato per il progetto del Club di Roma relativamente alla situazione difficile in cui versa l’umanità. Questo rapporto ha suscitato impressione in tutto il mondo perché ha l’intento di dimostrare, con l’ausilio di un modello di mondo computerizzato, che la crescita lungo le linee stabilite non può continuare a lungo senza causare una crisi inevitabile. Gli autori, quindi, implorano politiche che portino ad uno “stato sostenibile, auspicabile, di equilibrio globale”. Ritengono che “siano necessarie molte più informazioni per gestire la transizione verso un equilibrio globale…Le deficienze più eclatanti nella conoscenza odierna si trovano nel settore inquinamento del modello…Quanto ci mette un dato agente inquinante a spostarsi dal suo punto di rilascio al suo punto di ingresso nel corpo umano? ” (p. 180).

Anche qui non troviamo riferimenti agli inquinanti che entrano nella mente umana o nell’anima. Ma il rapporto afferma quanto segue: “L’informazione più importante, elusiva e decisiva che ci occorre tratta di valori umani. Non appena la società si renderà conto che non è possibile massimizzare tutto per tutti, allora dovrà iniziare a fare delle scelte. Dovrebbero esserci più persone o più ricchezza, più natura o più automobili, più cibo per i poveri o più servizi per i ricchi?” (p. 181). Potremmo dire: che ampia scelta! Anche in riferimento ai “valori umani”, una scelta che influisce sull’immarcimento delle menti o dei cervelli degli uomini non trova menzione. E questo è ancora un altro esempio della mancanza di interesse nella questione vitale del lavoro umano e degli effetti del lavoro sul lavoratore.

Considerando la centralità del lavoro nella vita umana, potremmo aspettarci che ogni libro di testo di economia, sociologia, politica e argomenti affini presenti una teoria del lavoro come una delle pietre miliari fondamentali per tutte le spiegazioni successive. In fin dei conti, è il lavoro che occupa gran parte delle energie dell’uomo e ciò che la gente effettivamente fa è generalmente più importante, per comprendere le persone, di ciò che dice o di ciò che acquista o di ciò che possiede o cosa vota. Il lavoro di una persona è sicuramente una delle forze che influenzano maggiormente il suo carattere e la sua personalità.

Tuttavia, la verità è che cerchiamo invano queste presentazioni delle teorie del lavoro in questi libri di testo. La questione degli effetti del lavoro sul lavoratore viene raramente presa in considerazione, per non parlare della questione se il vero compito non sia quello di adattare il lavoro alle esigenze del lavoratore piuttosto che richiedere al lavoratore di adattarsi alle esigenze del lavoro, il che significa, principalmente, adattarsi alle esigenze della macchina.

Non è che mancano studi e rapporti sulla produttività, sul morale dei lavoratori, sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale e così via. Il fatto è che non sembrano produrre nessun modo di pensare nuovo: non sollevano questioni relative alla validità o alla correttezza di un sistema che distrugge l’iniziativa dell’uomo e che fa marcire il suo cervello. Il punto di partenza per tutti, anche se con sfumature diverse, sembra essere il presupposto implicito che il tipo o la qualità del lavoro da svolgere nella società è semplicemente quella che è: qualcuno deve farlo e se alienante, è un peccato ma è inevitabile. Se le persone non vogliono farlo le paghiamo sempre di più finché abbastanza persone non ameranno i soldi più di quanto disprezzino il proprio lavoro. Ma, naturalmente, questa soluzione economica del problema (pagare ciò che la legge della domanda e dell’offerta prescrive) non è, dal nostro punto di vista, una soluzione. Alcuni, come osservò S. Agostino, traggono addirittura piacere dalle deformità e molti sono pronti, o costretti, a rovinarsi per denaro. Siamo preoccupati che il nostro sistema di produzione, in molte delle sue parti, sia tale che distrugge l’iniziativa dell’uomo e fa marcire il suo cervello ed infligge questo danno non a poche persone rappresentanti di un’eccezione, ma a milioni di persone tramite la routine quotidiana. Perché gli uomini e le donne tollerano questa situazione e l’accettano in base ad una compensazione pecuniaria è una questione totalmente diversa.
 
A questo proposito, potremmo ricordarci dell’insegnamento della Chiesa: “A nessuno”, disse papa Leone XIII (R.N. 32-3), “è lecito violare impunemente la dignità dell'uomo, di cui Dio stesso dispone con grande riverenza, né attraversargli la via a quel perfezionamento che è ordinato all'acquisto della vita eterna. Che anzi, neanche di sua libera elezione potrebbe l'uomo rinunziare ad esser trattato secondo la sua natura, ed accettare la schiavitù dello spirito, perché non si tratta di diritti dei quali sia libero l'esercizio, bensì di doveri verso Dio assolutamente inviolabili”.

Allora ci chiediamo: come si rapporta il lavoro allo scopo e al fine dell’essere uomini? È stato universalmente riconosciuto, in tutti gli autentici insegnamenti dell’umanità, che ogni essere umano venuto al mondo ha la necessità di lavorare non solo per nutrire se stesso ma anche per tentare di raggiungere la perfezione. “Sii perfetto, come tuo Padre che è in Cielo ed è perfetto”. Per mantenersi in vita, egli necessita di vari beni e servizi che non saranno vicini senza il lavoro. Per tentare di raggiungere la perfezione, egli ha bisogno di attività significative conformi con l’ingiunzione, “Come buoni amministratori della svariata grazia di Dio, ciascuno, secondo il dono che ha ricevuto, lo faccia valere al servizio degli altri (I Pietro, 4:10).

Da qui, possiamo derivare le tre finalità del lavoro umano come segue:
Primo: fornire alla società beni e servizi che sono necessari o utili per essa,
Secondo: consentire ad ognuno di noi di utilizzare e quindi perfezionare le nostre doti come buoni amministratori;
e Terzo: fare ciò per, e in cooperazione con, altri, in modo da liberarci dal nostro innato egocentrismo.

Questa triplice funzione del lavoro rende il lavoro così fondamentale nella vita umana che è veramente impossibile concepire la vita a livello umano senza il lavoro, che la Chiesa dichiara, “anche dopo il peccato originale, fu decretato dalla Provvidenza per il bene del corpo e dell’anima dell’uomo”.

Il tipo e la qualità del lavoro da svolgere sono dati implicitamente per garantiti; qualcuno deve pur farlo, che piaccia o no. Ma è arrivata l’ora di mettere in discussione questo assunto implicito e di attaccare questo immobilismo. Il lavoro stupido è intollerabile per una società che vuole essere sana e civilizzata tanto quanto l’aria viziata o l’acqua ristagnante, anzi, anche di più. Perché non possiamo porre nuovi obiettivi per i nostri scienziati e ingegneri, chimici ed esperti di tecnologia, molti dei quali diventano sempre più dubbiosi circa l’importanza umana del proprio lavoro? La società opulenta non ha nulla di nuovo in serbo? L’unica linea di sviluppo che siamo in grado di concepire è ancora “più grande, più veloce, più ricco”, nonostante sappiamo che comporta la perversione del lavoro umano così che, come disse un papa, “dalla fabbrica la materia morta ne esce migliorata, mentre i lavoratori ne escono corrotti e degradati”? … e che comporta anche la degradazione ambientale e il veloce esaurimento delle risorse non rinnovabili della terra. Non potremmo dedicare una piccola frazione della nostra ricerca e sviluppo (R&D) alla creazione di ciò che potrebbe essere chiamata una tecnologia dal volto umano?

Tanto per iniziare, questo “volto umano” rifletterebbe in un certo modo le dimensioni dell’essere umano: in altre parole, dovremmo esplorare la possibilità per la quale almeno alcune organizzazioni ed alcune macchine possano essere piccole abbastanza da soddisfare la scala umana. Innumerevoli persone desiderano diventare “padroni di se stessi”, indipendenti e autonomi (che non possono diventarlo a meno che non sia possibile essere efficienti su una piccola scala). Dov’è l’attrezzatura su piccola scala, dove sono i mini-impianti che danno una possibilità al piccolo uomo che può e vuole reggersi sulle proprie gambe?

La gente dice: non è possibile. Le piccole dimensioni sono anti-economiche. Come fa a saperlo? Mentre l’idea del “più grande è e meglio è” poteva essere una verità del diciannovesimo secolo, ora, grazie ai progressi della conoscenza e della capacità tecnica, è diventata – non su tutta la linea ma per grandi tratti – un mito del ventesimo secolo.

Ho in mente, ad esempio, un’unità di produzione sviluppata dall’Intermediate Technology Development Group che costa intorno alle 5,000 sterline. L’unità più piccola precedentemente disponibile costa 250,000 sterline, cinquanta volte tanto, e aveva una capacità 50 volte maggiore. I produttori di questa unità su larga scala erano assolutamente convinti che qualsiasi unità più piccola sarebbe stata irrimediabilmente anti-economica. Ma si sbagliavano. Pensate: invece di un’unità che richiede per il suo efficiente funzionamento una vasta e complessa organizzazione, possiamo avere cinquanta unità, ciascuna su “scala umana”, ciascuna grande abbastanza da dare un reddito onesto a poche persone intraprendenti ma nessuna troppo grande da consentire l’eccessivo arricchimento di qualcuno. Pensate alla semplificazione del trasporto, se possono esserci molte unità piccole invece di una grande, ciascuna che attinge dalle materie prime locali e che lavora per i vicini mercati locali. Pensate alle conseguenze umane individuali e sociali di un tale cambiamento di scala.

Onestamente, questo tipo di lavoro è stato inizialmente intrapreso unicamente con l’intenzione di aiutare i paesi in via di sviluppo dove, a causa della povertà, i mercati sono piccoli, la disoccupazione è alta, il capitale è scarso e il trasporto è generalmente difficile e costoso. Tuttavia, in modo molto rapido, è divenuto chiaro che i risultati di questo lavoro sarebbero stati di pari interesse per altre comunità nei paesi “sovra-sviluppati”, perché ovunque esistono innumerevoli persone che sono escluse dal processo produttivo in senso strettamente umano perché le organizzazioni, i requisiti del capitale e i macchinari sono diventati così grandi che solo chi è già ricco e potente può permetterseli e tutti gli altri possono semplicemente essere ritenuti “riempitivi del divario tecnologico”.

Una tecnologia dal volto umano non favorirebbe soltanto il piccolo contro il gigantismo corrente, ma anche la semplicità contro la complessità. È, naturalmente, molto più difficile rendere nuovamente le cose più semplici rispetto al complicarle di più.

Con ciò non intendo la vita semplice come tale, sebbene ci sia molto da dire in suo favore. Parlo, invece, dei processi di produzione, distribuzione e scambio, nonché della progettazione dei prodotti. La complessità, in se stessa spesso il risultato delle dimensioni eccessive e della soverchia eliminazione del fattore umano, richiede un grado di specializzazione e di divisione del lavoro che troppo spesso uccide il contenuto umano del lavoro e rende le persone troppo specializzate per essere in grado di raggiungere la saggezza. Pertanto, deve essere visto come un male, ed è compito dell’intelligenza umana, o della R&D nel contesto industriale, minimizzare questo male e non permettergli di proliferare.

Tutto ciò, io credo, è strettamente correlato. Tutto fa riferimento alla scala umana, all’umanizzazione del lavoro umano, tutto conduce alla re-integrazione dell’essere umano nel processo produttivo, così che lui/lei possano sentirsi vivi, creativi, felici, in breve una persona vera, anche mentre lavorano per guadagnarsi da mangiare.

Se una cosa è certa, è che un lavoro malato non può produrre una società sana. Non c’è motivo di credere che oggi, con tutta la conoscenza, con una scienza così brillante, e sorprendenti capacità tecnologiche a nostra disposizione, non siamo in grado di estendere la gioia del lavoro produttivo e creativo anche a quei milioni di persone che al momento non ne dispongono. Una società sana non può emergere se, come disse Paul Goodman, milioni di giovani “crescono in modo assurdo”; o se milioni di uomini e donne sono condannati, per la gran parte della loro vita, a svolgere un lavoro che distrugge l’iniziativa e fa marcire i loro cervelli; o, anzi, se tutto o gran parte del lavoro creativo, utile e produttivo viene affidato alle macchine controllate da multinazionali giganti mentre alla gente, alla vera gente, si dice di trovare la propria realizzazione nelle attività ricreative.
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