Di ciò di cui non si può parlare si tace. - Ludwig Wittgenstein

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I SENTIERI DELL' ESSERE
Le mille Vie della Spiritualità
I SENTIERI DELL' ESSERE
LA PRATICA DA SEGUIRE
Un monaco chiese a Dong-Shan:
C'è una pratica che le persone debbano seguire?
Dong Shan rispose:
quando diventi una vera persona c'è una tale pratica.
Sai essere freccia, arco, bersaglio?
<b>Sai essere freccia, arco, bersaglio?

Sai essere freccia, arco, bersaglio?
Conosci la sequenza delle costellazioni?
La fusione dell'idrogeno in elio?
Sai misurare la tua integrità?
Se rispondi
Avrai l'immortalità.

Laura Scottini

MEDITAZIONE TAOISTA
<b>MEDITAZIONE TAOISTA </b>





 

Chiudi gli occhi e vedrai con chiarezza.
Smetti di ascoltare e sentirai la verità.
Resta in silenzio e il tuo cuore potrà cantare.
Non cercare il contatto e troverai l'unione.
Sii quieto e ti muoverai sull'onda dello spirito.
Sii delicato e non avrai bisogno di forza.
Sii paziente e compirai ogni cosa.
Sii umile e manterrai la tua integrità.

 

IL VUOTO CHE DANZA
IL VUOTO CHE DANZA










di H.W.L. Poonja


Rimani ciò che sei ovunque tu sei.
Se fai così, saprai immediatamente
di essere Quello che hai cercato
per milioni di anni.

Non c'è ricerca,
perchè si cerca solo qualcosa che si è perso.
ma quando niente è andato perduto
non ha senso
cercare qualcosa.

Qui semplicemente Stai Quieto.
Non formare nemmeno un pensiero nella mente.
Allara saprai
Chi sei realmente.

per tre motici la ricerca e la pratica
sono follie fuorvianti
sono l'inganno della mente
per posporre la libertà.
Continua...

PAROLE SU DIO
PAROLE SU DIO

di Simone Weil

Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio, ma dal modo in cui parla delle cose terrestri, che si può meglio discernere se la sua anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio. … Così pure, la prova che un bambino sa fare una divisione non sta nel ripetere la regola; sta nel fatto che fa le divisioni.

Il bello è ciò che si desidera senza volerlo mangiare. Desideriamo che sia. Restare immobili e unirsi a quel che si desidera senza avvicinarsi. Ci si unisce a Dio così: non potendosene avvicinare. La distanza è l’anima del bello.

Nella prima leggenda del Graal è detto che il Graal, pietra miracolosa che in virtù dell’ostia consacrata sazia ogni fame, apparterrà a chi per primo dirà al custode della pietra, il re quasi paralizzato dalla più dolorosa ferita: “Qual è il tuo tormento?”. La pienezza dell’amore del prossimo sta semplicemente nell’essere capace di domandargli: “Qual è il tuo tormento?”, nel sapere che lo sventurato esiste, non come uno fra i tanti, non come esemplare della categoria sociale ben definita degli “sventurati”, ma in quanto uomo, in tutto simile a noi, che un giorno fu colpito e segnato dalla sventura con un marchio inconfondibile. Per questo è sufficiente, ma anche indispensabile, saper posare su di lui un certo sguardo. Continua...
I BAMBINI
DAGLI OCCHI DI SOLE

I BAMBINI<br> DAGLI OCCHI DI SOLE










Vidi i pionieri ardenti dell’Onnipotente
superando la soglia celeste che è volta alla vita
discendere in frotta i gradini d’ambra della nascita;
precursori d’una moltitudine divina,
essi lasciavano le rotte della stella del mattino
per l’esigua stanza della vita mortale.

Li vidi traversare il crepuscolo di un’era,
i figli dagli occhi di sole di un’alba meravigliosa,
i grandi creatori dall’ampia fronte di calma,
i distruttori possenti delle barriere del mondo
che lottano contro il destino nelle arene della Sua volontà,
operai nelle miniere degli dei,
messaggeri dell’Incomunicabile,
architetti dell’Immortalità.

Nella sfera umana caduta essi entravano,
i volti ancora soffusi della gloria dell’Immortale,
le voci ancora in comunione coi pensieri di Dio,
i corpi magnificati dalla luce dello spirito,
portando la parola magica, il fuoco mistico,
portando la coppa dionisiaca della gioia,
Continua...
IL SEGRETO DELLE STELLE CADENTI
IL SEGRETO DELLE STELLE CADENTI

di Maurizio Di Gregorio

Tutti cerchiamo qualcosa. Se lo cerchiamo nel mondo materiale pensiamo di trovarlo all’esterno di noi stessi. Se lo cerchiamo nel mondo spirituale siamo portati a credere di poterlo trovare all’interno di noi. Una massima dice: la risposta è dentro di te. Una battuta invece dice: la risposta è dentro di te, ma è sbagliata. Ambedue le affermazioni sono vere perché si riferiscono a due esseri diversi. Uno vero e l’altro falso. Come si fa a sapere quale é l’Io interiore che contiene tutte le risposte della vita? Dalla felicità. Nel primo caso si sa solo che si è felici, sia pure per un attimo, si è completamente, immensamente e interamente felici e più correttamente si dovrebbe chiamarla beatitudine. Nel secondo caso sappiamo solo, che a dispetto di ogni altra cosa, momentanea soddisfazione o eccitazione, non si è veramente felici. 
Aivanhov, definendo la natura umana, parla della coesistenza di una natura inferiore e di una natura superiore. All’interno di ognuno è una continua lotta tra due esseri (o stati di essere) in competizione che Aivanhov chiama Personalità e Individualità. “Persona “ è la maschera e in ogni incarnazione la maschera è diversa, “Individualità” è l’abitante della maschera, colui che non cambia, il vero Sé divino. La personalità è in parte ancora inesistente nel bambino ma già tracciata, si sviluppa con l’età come la trama di un tessuto e si consuma nella vecchiaia. Il risveglio dell’anima consiste nel riconoscimento del Sé interiore e nell’abbandono momentaneo della maschera della personalità. Ora anche se possiamo capire qualcosa del nostro essere maschera, né la mente, né il cuore né la volontà sono risolutivi.
E questo perché mente cuore e volontà sono una triade che esiste tanto nella natura delle Individualità quanto nella natura della Personalità.
“Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” Quale è, in ogni dato momento, il cuore che chiede, la mente che cerca, la volontà che agisce? La strada dell’evoluzione spirituale, cioè della evoluzione dell’essere allo Spirito, è insidiosa perché ad ogni sviluppo della Individualità segue uno sviluppo della Personalità. Differentemente il discernimento è possibile solo dal punto di vista della Coscienza Superiore che è esattamente ciò che si illumina.
Fuori da questa esperienza si persiste sempre in un tipo di coscienza media, anche se ampliata o sofisticata, una coscienza media perché media in un equilibrio precario le necessità delle due nature....Continua...
I SETTE ASPETTI DELLA NUOVA COSCIENZA
I SETTE ASPETTI DELLA NUOVA COSCIENZA

di Ervin Laszlo

Il grande compito, la grande sfida del nostro tempo è cambiare se stessi.
Questo elenco delle principali caratteristiche della nuova visione, della nuova coscienza, è scritto per stimolare la trasformazione, perché è possibile acquisire una nuova consapevolezza, perché tutti possono evolvere, tante persone l'hanno già fatto ed è diventata una conditio sine qua non della nostra sopravvivenza sulla Terra.
La prima caratteristica è l'olismo, la visione olistica, per contrastare la visione frammentaria, disciplinaria, atomistica, che separa tutto: la mente dalla natura, l'uomo e la società dalla biosfera, e tutti i campi della realtà l'uno dall'altro. La visione olistica è proprio quella comprensione Continua...
I FIGLI DELLA LUCE
I FIGLI DELLA LUCE




 


I Figli della Luce si nutrono di Pace, Libertà, Amore, Giustizia, Grazia, Benevolenza, Comprensione, Compassione, Generosità, Bontà, Luce, Verità, Positività, trasmettendo tutto questo intorno a loro. Le creature che vengono in contatto con i Figli della Luce percepiscono la Positività dell’operato della “Luce Amore” e uno stato di benessere entra in loro. Non sono consapevoli della fonte di questa Positività, ma stanno volentieri in compagnia dei Figli Luce dispensatori d’Amore.
Continua...
UNA SPIRITUALITA' ECOLOGICA
UNA SPIRITUALITA' ECOLOGICA

di Matthew Fox

L’ecologia e la spiritualità sono le due facce della stessa medaglia. La religione deve lasciar andare i dogmi in modo da poter riscoprire la saggezza del mondo.
Come dovrebbe essere una religione ecologica? Negli ultimi 300 anni l’umanità è stata coinvolta in una grande desacralizzazione del pianeta, dell’universo e della propria anima, e questo ha dato origine all’oltraggio ecologico. Saremo capaci di recuperare il senso del sacro?La religione del futuro non sarà una religione in senso stretto del termine, dovrà imparare a lasciare andare la religione. Il Maestro Eckhart, nel quattordicesimo secolo disse, “Prego Dio di liberarmi da Dio”. Per riscoprire la spiritualità, che è il cuore autentico di ogni religione vera e fiorente, dobbiamo liberarci dalla religione. Sembra un paradosso. La spiritualità significa usare il cuore, vivere nel mondo, dialogare con il nostro sé interiore e non semplicemente vivere a un livello organizzativo esterno.
E. F. Schumacher, nel suo profetico modo di scrivere, disse, nell’epilogo di Piccolo è bello, “Dappertutto la gente chiede, ‘Cosa posso fare praticamente?’ La risposta è tanto semplice quanto sconcertante, possiamo, ciascuno di noi, mettere in ordine la nostra casa intima, interiore. Per far questo non troviamo una guida nella scienza o nella tecnologia, poiché i valori sui quali esse si poggiano dipendono sommamente dal fine per il quale sono destinate. Tale guida la si può invece ancora trovare nella tradizionale saggezza dell’umanità”.
Tommaso d’Aquino, nel tredicesimo secolo disse, “Le rivelazioni si trovano in due volumi – la Bibbia e la natura”. Ma la teologia, a partire dal sedicesimo secolo, ha messo troppa enfasi nelle parole della Bibbia, o del Vaticano o dei professori, ha messo tutte le uova nel paniere delle parole, parole umane, e ha dimenticato la seconda fonte della rivelazione, la natura!
Il Maestro Eckhart disse, “Ogni creatura è la parola di Dio e un libro su Dio”. In altre parole, ogni creatura è una Bibbia. Ma come ci avviciniamo alla saggezza biblica, alla saggezza sacra delle creature? Col silenzio. C’è bisogno di un cuore silente per ascoltare la saggezza del vento, degli alberi, dell’acqua e della terra. Nella nostra ossessiva cultura verbale, abbiamo perso il senso del silenzio. Schumacher disse, “Siamo ormai troppo intelligenti per sopravvivere senza saggezza”. Continua... 
SULL'ANARCHIA BUDDISTA
SULL'ANARCHIA BUDDISTA di Gary Snyder

Da un punto di vista buddista, l'ignoranza che si proietta nella paura e nel vano appetito impediscono la manifestazione naturale. Storicamente, i filosofi buddisti non hanno saputo analizzare fino a che punto l'ignoranza e la sofferenza erano dovuti o favoriti da fattori sociali, considerando il timore e il desiderio come fatti intrinseci alla condizione umana. Così, la filosofia buddista si interessò principalmente alla teoria della conoscenza e la psicologia fu svantaggiata, per dare più spazio allo studio dei problemi storici e sociologici. Anche il buddismo Mahayana possiede un'ampia visione della salvezza universale, la sua realizzazione effettiva si è concretizzata nello sviluppo di sistemi pratici di meditazione per liberare a una minoranza di individui da blocchi psicologici e condizionamenti culturali. Il buddismo istituzionale è stato chiaramente disposto ad accettare o a ignorare le disuguaglianze e le tirannie sotto il sistema politico che vigeva. È stata come la morte del buddismo, posto che è comunque la morte che riesce a far comprendere il significato della compassione. La saggezza senza compassione non sente dolore.
Continua...
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APARIGRAHA O LIBERTA' DAL POSSESSO
- YAMA E NIYAMA IV



di Paolo Quircio
 
Il quinto ed ultimo Yama è Aparigraha. Parigraha vuol dire bramosia, desiderio di possesso, e il prefisso negativo a indica il contrario; quindi mancanza di bramosia e di desiderio di possesso. Abbiamo detto in precedenza che nulla in Patanjali è casuale, né le parole, scelte sempre con grande accuratezza, data anche l’estrema stringatezza del testo, né la collocazione degli argomenti nell’ambito della Scrittura. Gli Yama e i Niyama fanno parte del Sadhana Pada, il secondo capitolo dei Sutra.

Dopo aver descritto, nel primo capitolo, Samadhi Pada, gli obiettivi dello Yoga, nel secondo Patanjali illustra prima gli ostacoli che si frappongono tra l’aspirante e il suo scopo, il Samadhi, l’illuminazione, e quindi i modi per superarli. La Sadhana indicata da Patanjali è un percorso lineare quanto mai logico che l’aspirante segue passo dopo passo, preso per mano dal Maharishi.

Innanzitutto, sutra 1 e 2, ci spiega che il Kriya Yoga, lo Yoga pratico, è composto da purificazione, introspezione e abbandono al Divino, e questo Yoga pratico serve a rendere sempre maggiore la consapevolezza della meta, il Samadhi, e rendere più esili le afflizioni che ne ostacolano il conseguimento. Questa premessa è di fondamentale importanza, soprattutto per quanti ritengano lo Yoga una filosofia e, in quanto tale, soprattutto nel concetto che abbiamo noi Occidentali della filosofia, abbastanza fine a se stessa, un esercizio dialettico e cerebrale staccato dalla vita reale. Il Raja Yoga non è una filosofia, è una straordinaria tecnica di conoscenza di sé, che ci porta sempre più in profondità, fino ad arrivare a conoscere il Sé, il divino che è la nostra vera essenza. 

I sutra 3-9 descrivono quindi queste afflizioni, i cinque Klesha, che nello specifico sono: Avidya, l’ignoranza spirituale responsabile dell’erronea identificazione con il complesso corpo-prana-mente, di natura  transitoria, invece che con l’Atman, eterno e immutabile. Questo senso dell’io separato dal Tutto è Asmita, il secondo Klesha. Da  Asmita derivano Raga e Dvesha, attrazione e repulsione. Attrazione verso quelle cose che nella nostra ignoranza pensiamo possano darci la felicità e repulsione per tutte le cose che altrettanto scioccamente riteniamo ci diano dolore. Il tutto senza mai renderci conto che la felicità può essere trovata solo dentro di noi e che l’unica fonte del dolore è la mancanza di consapevolezza di ciò.

Infine la più grande di tutte le Dvesha, la paura della morte e il morboso attaccamento alla vita; la paura di perdere la cosa più preziosa che pensiamo di possedere: il nostro corpo. Sarira parigraha duhkham eva, dicono gli Shastra, ‘il possesso del corpo è certezza di dolore’. Ma noi siamo affezionati a quel corpo e, in una sorte di sindrome di Stoccolma spirituale, ne diventiamo succubi, pronti a qualsiasi sacrificio per soddisfare le sue necessità, o meglio, le sue voglie. Nei due sutra seguenti, 10 e 11, viene spiegato come i Klesha possano essere dapprima assottigliati e quindi eliminati del tutto tramite l’esercizio della meditazione. I cinque Klesha sono presenti in quattro stati di intensità: latenti, tenui, alternati e in piena attività.

La meditazione dovrebbe essere mirata, oltre che alla ricerca di unità col Divino, all’introspezione, all’analisi dei nostri stati mentali. Solo così sarà possibile riconoscere gli errori della mente che producono in noi inesauribile dolore e, per involuzione, passando cioè a ritroso dalla paura della morte ad Avidya, l’ignoranza spirituale, si potranno portare i Klesha dallo stato manifesto, gradualmente a quello latente, fino a bruciarli del tutto ed evitare che i loro semi possano germogliare inaspettatamente in qualche fessura della nostra mente, conscia o subconscia.

Patanjali passa quindi a spiegare, sutra 12-14, come la legge del Karma dipende dal dolore e al contempo ne produce. Il nostro modo di sottostare ai Klesha ci porta ad arricchire continuamente il Karmashaya, il magazzino karmico. Le azioni, ma anche i pensieri, dettate dall’ignoranza spirituale e da ciò che ne consegue, producono Samskara, impressioni mentali che ci trasciniamo dietro da una vita all’altra. Questi Samskara a loro volta producono nuovo Karma, tenendoci legati al ciclo di nascite e morti, fonte di nuovo dolore.

Un circolo vizioso da cui solo una pratica spirituale intensa ci può liberare. Nel sutra 14 viene detto che, a seconda delle nostre azioni passate, meritevoli o meno, il Karma può dare frutti di felicità o di dolore. Ma immediatamente dopo, sutra 15, ci viene ricordato che dolore e piacere sono due facce della stessa medaglia e che una persona dotata di Viveka, la capacità di discriminare, di distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è, ciò che è eterno, immutabile da ciò che è destinato a finire, sa che tutto ciò che è legato al mondo dell’apparenza, di Maya, è inesorabilmente fonte di dolore.

Patanjali individua le cause di questo inevitabile dolore nel cambiamento, parinama, a cui tutto è soggetto in Prakriti, la Natura, che è in costante mutazione; all’ansia, tapa, che deriva dalla paura di perdere ciò che abbiamo acquisito; dall’abitudine, samskara, che ci rende presto stanchi di tutti i piaceri che pure avevamo tanto desiderato, innescando un’incessante ricerca di godimenti sempre nuovi. A queste tre cause si aggiunga poi il continuo conflitto tra le attitudini della mente e i Guna, le tre qualità di cui siamo composti.

Questo conflitto si trasforma sempre in una lotta tra desiderio e necessità, tra volere e dovere, che crea dolorosi dissidi interni, ambizioni frustrate e insoddisfazione profonda. Infine, nel sutra 16 ci viene detto che la sofferenza futura va evitata. Sembra banale, ma non lo è. Non riusciremo mai ad evitare di costruire, col nostro comportamento di oggi, le sofferenze di domani, finché non avremo raggiunto un serio livello di consapevolezza della nostra vera, profonda natura. Finché non avremo raggiunto un serio livello di discriminazione, di Vairagya, la capacità di separare il reale dall’irreale, il Dharma dall’Adharma.

Evitare la sofferenza futura vuol dire capire a pieno non solo la legge del Karma, ma l’intero senso dell’esistenza e, di conseguenza, cambiare radicalmente il nostro modo di vivere. E qui, sutra 17-28, Patanjali entra un po’ più nel dettaglio,  spiegando che la causa di ciò che dovremmo evitare, l’Agami Karma, il Karma delle vite future che creiamo in quella attuale, è l’unione di Drashta, chi vede, e Drishya, ciò che viene visto, ovvero tra Purusha, la parte divina di noi, e il complesso corpo-prana-mente, composto dai cinque elementi, dai tre Guna e dagli organi di percezione e di attività.

Un concetto analogo, anzi identico, a quello esposto nel XIII discorso della Bhagavad Gita, in cui Krishna usa, per descrivere le due entità, le parole Kshetra, campo, e Kshetrajna, conoscitore del campo. Proprio perché il complesso corpo-prana-mente, come un campo, dà i suoi frutti, di cui saremo inevitabilmente costretti a usufruire nelle vite successive. Pur essendo Drashta pura consapevolezza, essa ha bisogno di una struttura grossolana per essere in contatto con il mondo manifestato, e questa struttura è la mente. Ma come la luce che passa attraverso un paralume colorato ne assume il colore, così la coscienza di Purusha, manifestandosi attraverso la mente, ne assume la ‘colorazione’.

Lo scopo di questa unione, causata da Avidya, è solo quello di portare il Jivatma, l’Atman incarnato, alla liberazione dal ciclo di nascite e morti. Ma perché questo scopo possa essere raggiunto bisogna eliminare Avidya, e lo strumento per eliminarla è Vivekakhyati, la profonda, indisturbata consapevolezza discriminante; combinazione di coscienza profonda e di discriminazione tra reale e irreale, in cui l’una, la coscienza, alimenta l’altra, la discriminazione, e viceversa. È una forma di conoscenza che non si può ottenere con i sensi, né con la mente o con l’intelletto.

Nel suo “Quattro Capitoli sulla Libertà”, lo splendido commentario degli Yoga Sutra, Swami Satyananda, uno dei migliori discepoli di Swami Sivananda Saraswati e fondatore della Bihar School of Yoga, spiega che come non si può pesare la Terra su una bilancia, ma se ne può calcolare il peso con il calcolo matematico; non si può misurare la distanza tra il sole e la Terra con un metro, ma si può dedurre dalla conoscenza delle leggi della fisica, così la conoscenza del Divino e l’eliminazione dell’ignoranza spirituale si possono raggiungere solo con l’introspezione, con la meditazione e la ricerca interiore. Si dice che quando si pratica la meditazione da un bel po’ di tempo, il praticante diventa Vidya Peetha, sede di conoscenza.

Una conoscenza inizialmente solo parziale, che nel corso del progresso spirituale, della presa di coscienza della propria vera natura, si trasforma in vera e propria onniscienza. Come un bambino prodigio sa fare cose che non ha mai imparato in questa vita, perché attinge da conoscenze acquisite nelle vite precedenti, così chi ha raggiunto l’Illuminazione ha la capacità di attingere alle conoscenze cosmiche con cui è entrato in contatto o, per essere più precisi, di cui è diventato parte o, per essere ancora più precisi, di cui si è finalmente reso conto di essere parte.

Infine, prima di enumerare le otto parti del Raja Yoga, che poi andrà a spiegare più in dettaglio, Patanjali ci ricorda che: “Con la pratica delle (otto) parti dello Yoga le impurità diminuiscono e l’ascesa della conoscenza spirituale culmina nella consapevolezza della realtà.” Y.S., II, 28. E quindi che l’Ashtanga Yoga, lo Yoga delle otto parti, è lo strumento che ci porta fuori da Avidya, e ci dona il Samadhi, l’illuminazione. È importante sottolineare che le otto parti si dividono in Bahiranga, l’aspetto esterno, e Antaranga, la parte interiore. Bahiranga sono Yama, Niyama, Asana, Pranayama e Pratyahara, discipline che hanno a che fare soprattutto con il corpo, con il prana e con i sensi. Sono Antaranga le rimanenti tre, Dharana, concentrazione, Dhyana, meditazione, e Samadhi, illuminazione.

Questa divisione tra le varie parti, tra gli otto gradini dello Yoga è importante perché ci dà il giusto ritmo di apprendimento. Solo pochi nascono già pronti per gli ultimi gradini del Raja Yoga. Per la maggior parte di noi, il percorso di purificazione e di padronanza di corpo, prana, sensi e mente inferiore è assolutamente necessario. Tentare di bruciare le tappe, cercando di anticipare livelli più elevati di quelli per cui siamo pronti, può essere come minimo inutile, ma il più delle volte si rivela dannoso, se non disastroso.

Si dice che ci si avvicina allo Yoga dopo 1008 nascite umane. Abbiamo aspettato tanto per cominciare il cammino spirituale, perché avere fretta proprio adesso e rischiare di rovinare tutto?
Tutta questa lunga introduzione per capire la sistematicità del pensiero yogico. Ma anche perché nel sutra  in cui parla di Aparigraha, Patanjali fa un’affermazione che sarebbe abbastanza difficile da comprendere senza la lunga premessa appena conclusa. Egli dice infatti: “Quando si diventa stabili in Aparigraha, allora sorge la conoscenza delle vite passate e future”.

Abbiamo detto che nulla nei Sutra di Patanjali è causale; infatti, dopo aver iniziato il processo di purificazione, di rimozione delle scorie grossolane tramite i primi quattro Yama, arriviamo all’ultimo, che va a colpire direttamente alla radice tutta la grossolanità del nostro essere: il desiderio di possesso. Parigraha, il desiderio di possesso, altro non è che il tentativo, la volontà di trasformare ogni oggetto in ‘mio’; e cos’è ‘mio’ se non la proiezione all’esterno di ‘io’? Il desiderio di includere nel proprio ‘io’ grossolano tutto quello che è alla portata dei nostri sensi.

Al nostro io ipertrofico non basta più se stesso, allora ha bisogno di nutrirsi inglobando ciò che è alla sua portata e che, nel suo delirio dettato da Avidya, crede possa gratificarlo e dargli quella felicità che in realtà già possiede, ma di cui, proprio a causa di Avidya, non è cosciente. E allora cerca di arraffare, in una sorta di bulimia esistenziale, denaro, sesso, potere, oggetti di consumo, qualsiasi cosa dia un po’ di sollievo a quel senso di profondo dolore, di vacuità, di insensatezza di una vita vissuta esclusivamente, o quasi, nel cercare di soddisfare i propri desideri materiali.

D'altronde, cosa ci spinge alla violenza, Hisma, alla falsità, a impossessarci di ciò che non ci appartiene, Steya, di fare del sesso un perno intorno al quale ruota tutta la vita, se non Parigraha, il desiderio di possesso?

Nella Gita, Arjuna chiede a Krishna: “Ma costretto da cosa un uomo commette peccato, sebbene contro la sua volontà, O Krishna, obbligato come per forza?” B.G. III, 36. E Krishna, Jagadguru, il Maestro Universale, risponde: “È il desiderio, l’ira nata dalla qualità Rajas, malefica e che tutto divora; conoscilo come il tuo nemico che è qui, in questo mondo. Come il fuoco è avvolto dal fumo, come lo specchio dalla polvere e come un embrione dalla membrana, così questo è avvolto da quello. O Arjuna, la saggezza è avviluppata da questo costante nemico del saggio nella forma del desiderio, che è implacabile come il fuoco” B.G. III, 37-39. Nel Manusmriti, la Legge di Manu, troviamo anche: “Il desiderio non può essere mai saziato o raffreddato dal godimento degli oggetti. Proprio come il fuoco si sprigiona più forte quando è alimentato da burro o legno, così anche il desiderio è alimentato quando è alimentato dagli oggetti del desiderio.”

Il desiderio, secondo tutti i testi indiani, è la fonte di tutti i guai, è una sorta di gorgo che alimenta se stesso incessantemente. Esso va sradicato alla base. Più pratichiamo l’introspezione, più capiamo chi siamo veramente, più ci avviciniamo all’eliminazione dei desideri. È un processo lungo e impegnativo, a volte anche doloroso, che richiede notevole determinazione e forza d’animo, ma tertium non datur, non ci sono altre possibilità: restare appieno nel mondo sensibile, col suo dolore e la sua insensatezza, o tentare di uscirne. Patanjali ci indica la via, una via certo non facile, ma che è già stata percorsa da innumerevoli Mahatma prima di noi. Essi ci hanno lasciato gli insegnamenti per percorrere la stessa via senza errori, basta seguire i loro insegnamenti illuminati e illuminanti.

Anche noi, sconfiggendo il desiderio, causa di ogni dolore, riusciremo non a conquistarci un posto in un ipotetico Paradiso di là da venire, ma riusciremo a vivere, hic et nunc, una vita serena, piena, consapevole della nostra vera identità e del ruolo che abbiamo in questa vita e in questo mondo. E man mano che questa consapevolezza cresce e si approfondisce, diventeremo anche noi capaci di capire le nostre vite precedenti e quelle che seguiranno. Swami Satyananda dice: “Quando questa Sadhana (Aparigraha) è fermamente stabilita, l’aspirante può conoscere la nascita precedente, il suo genere, il suo tempo e la sua ragione. Analogamente, si può conoscere la nascita successiva. Così come vedendo una nuvola sapete che pioverà, allo stesso modo, saprete della nascita precedente e delle successiva essendo fermamente stabiliti in Aparigraha.”   

Paolo Quircio
New Delhi, 12-05-2018

 
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